Frank Gehry, creatore di sogni

Frank Gehry, creatore di sogni

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Si parte dagli sketches, dagli schizzi realizzati con mano ferma da Frank Gehry, che contengono solo l’abbozzo di un lavorio cervellotico e geniale del padre dell’architettura della decostruzione poststrutturalista: quel suo cesellare piano dapprima sulla bidimensionalità di un foglio di carta bianca, poi sulla tridimensionalità di un plastico per finire sulla computer graphic sembra essere l’estremo bizzarro tentativo di manipolare forme e volumi di una realtà spesso sfuggente.

Manipolando lo spaziotempo

Il documentario segue Frank Gehry, attraversa la sua vita e le sue opere, come il Guggenheim Museum Bilbao e la Disney Concert Hall in California. Amico del celeberrimo architetto, Sydney Pollack ha avuto ampio accesso alla vita e all’opera di Gehry, intervistando colleghi, amici e ammiratori per esaminare il suo processo creativo e la sua ascesa alla ribalta nel mondo dell’architettura… [sinossi]

Il perché di questa avventura documentaristica, la prima della sua pur lunghissima carriera, Sydney Pollack lo chiarisce fin da subito: è stato lo stesso Frank Gehry, suo amico di lunga data, a chiedergli di fare un documentario sulla sua vita e sul suo lavoro. Pollack, dunque, entra timidamente nel mondo dell’architettura – di cui, stando alle sue stesse parole, sa poco o nulla – e nel mondo del documentario che, come detto, non aveva mai incontrato nella sua carriera registica. Ed è proprio questo duplice sguardo vergine a costituire l’anima di questo Frank Gehry, creatore di sogni: un viaggio nell’universo artistico di un grande architetto compiuto da un altrettanto grande regista cinematografico.

Permettete una piccola parentesi sul titolo del film: ancora una volta dobbiamo riscontrare quanto lo storpiare i titoli originali, benché sia una pratica barbara, è ancora molto praticata nel nostro paese. Prendete il titolo originale di quest’opera (Sketches of Frank Gehry) e ancor prima di averlo visto avrete un’idea su quale sia il percorso compiuto in quei ottantadue minuti di visione: niente a che vedere con creatore di sogni che sembra più un’etichetta che un titolo.
Torniamo a noi: si parte appunto dagli sketches, quegli schizzi realizzati con mano ferma da Frank Gehry, che contengono solo l’abbozzo di un lavorio cervellotico e geniale del padre dell’architettura della decostruzione poststrutturalista (anche se lui non si è mai inscritto in nessun movimento architettonico): quel suo cesellare piano dapprima sulla bidimensionalità di un foglio di carta bianca, poi sulla tridimensionalità di un plastico per finire sulla computer graphic sembra essere l’estremo bizzarro tentativo di manipolare forme e volumi di una realtà spesso sfuggente. Pollack sembra inseguirlo col microfono in mano, senza imbarazzo per l’essere anch’esso in scena (del resto, viste le sue numerose prove d’attore, come potrebbe essere il contrario?), anche se spesso è lui stesso con una videocamerina digitale a riprendere.

L’architettura contorta di Gehry, che ha nel Guggenheim Museum di Bilbao la sua più conosciuta e forse migliore rappresentazione, sembra nata dalle lontane influenze delle dolci spirali di Frank Lloyd Wright e dalle onde di vetro di Alvar Aalto: in effetti, Gehry sembra estremizzare le soluzioni architettoniche, più che urbanistiche, di questi due suoi grandi predecessori, senza però seguirne pedissequamente le tracce. In questo, Pollack riesce bene e fa emergere qualcosa dalla personalità schiva di Gehry, quel qualcosa che consente allo spettatore di intuire quantomeno quale sia la chiave di volta del suo percorso artistico.
È, per esempio, quell’insistere, quell’indagare davvero con occhio (meta)cinematografico le superfici delle opere dell’architetto canadese, ma americano d’adozione: in quei metalli utilizzati come rivestimenti, tra i preferiti vi è senza dubbio il titanio (un metallo sì costoso ma anche resistente, leggero e molto plasmabile), c’è la traccia della modernità architettonica di Gehry, uno per cui la decorazione è peccato. E allora, mentre Pollack corre il rischio di perdersi saltando da un’intervista all’altra, c’è tutto il tempo di lasciarsi andare ad arditi quanto possibili elementi di scarto con altri padri dell’architettura moderna (come l’ossessione autobiografica che sembra davvero emergere da un inconscio pressurizzato, quasi un must per un architetto che voglia anche esser definito artista). E se in Gehry è la semplice e costante ricerca di rendere omogenee e levigate le proprie superfici a caratterizzare il proprio statuto estetico, in Louis Kahn, al centro di un altro bel documentario uscito un paio di anni fa (My Architect di Nathaniel Kahn), al contrario a emergere con lucida precisione è l’elemento rugoso, spesso imperfetto, delle sue superfici.
Ed è assai curioso osservare come i due film che negli ultimi anni hanno indagato nel modo più interessante il mondo dell’architettura abbiano al centro due figure quasi antitetiche, una agli antipodi dell’altra: parabole architettoniche molto distanti – contorta e sofferta quella di Kahn, più lineare e ludica quella di Gehry – eppure accomunati da un disperato quanto vano, ma questo è soltanto un giudizio personale, desiderio di sovvertire le regole di un mondo prefabbricato e non certo progettato.

Info
Frank Gehry, creatore di sogni sul canale DOC ITA.

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