Lezione ventuno

Lezione ventuno

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Alessandro Baricco esordisce alla regia con Lezione ventuno, portando in scena quel professor Mondrian Kilroy già apparso sulle pagine di City, e si prodrigra in un’opera ipertrofica, inutilmente ambiziosa, vacua rispetto all’armamentario dell’immaginario lanciato contro lo spettatore.

Prendi l’arte e mettila da parte

Mondrian Kilroy è un professore universitario inglese, eccentrico e geniale. Mal tollerato dalla comunità accademica, il professore è adorato dagli studenti, che ancora ne ricordano le bizzarre e illuminanti lezioni. [sinossi]

La prima volta che abbiamo avuto modo di incontrare il professor Mondrian Kilroy è stata sulle pagine di City; eravamo nel 1999, probabilmente il momento di massima fama raggiunto da Alessandro Baricco. Nel libro Kilroy viene descritto come l’autore di un saggio sull’onestà intellettuale, un punto sul quale ci premuriamo di ritornare prima della conclusione di questa disamina. Ci siamo avvicinati a Lezione ventuno, l’esordio registico di Baricco, con un vasto assortimento di saliscendi umorali, contraddizioni sinaptiche, in un guazzabuglio di pensieri che roteavano vorticosamente intorno a un unico centro: pur rendendoci conto del nostro stato di assoluta minoranza rispetto alla massa, consideriamo difatti l’autore di Novecento e Oceano mare la più mastodontica bolla di sapone esplosa nella cultura italiana degli ultimi venti anni. Se c’è un’opera alla quale riconosciamo un determinato valore positivo, quella è Castelli di rabbia; ma parliamo del 1991, praticamente una vita fa. Da allora abbiamo assistito, a nostro parere, a una montatura continua che ha voluto trasformare uno scrittore di medio cabotaggio in un vate culturale, punto di riferimento per qualsivoglia digressione nel campo dell’arte. Lezione ventuno, e approdiamo finalmente al vero oggetto dell’intera discussione, è figlio di una esagerata e sproporzionata fiducia nei propri mezzi: vorrebbe elevarsi a livello di grande riflessione teorica e filosofica sullo stato dell’uomo, sulla sua caducità e sul rapporto intrinseco che lega l’essere umano e la sua proverbiale fallacia all’ispirazione artistica, ma si trasforma quasi istantaneamente in una stanca e ripetitiva tiritera usurata sull’arte come accomodamento e/o pazzia.

Che Beethoven fosse animale ben difficile da domare nel metterlo in scena, lo avevano dimostrato già “illustri” precedenti (il melenso ritratto à la harmony di Amata immortale di Bernard Rose e il controverso e diseguale ma affascinante Musikanten di Franco Battiato), e questa occasione non sembra certo fungere da eccezione, tutt’altro. Anche perché qui non si tratta solamente di cercare di sfondare il mistero di un musicista che da un certo punto in poi, divenuto irrimediabilmente sordo, ha composto senza sentire (paradosso pressoché unico nella storia dell’arte, paragonabile in parte solo al Derek Jarman degli ultimissimi film, girati quando il regista era già oramai stato reso cieco dall’AIDS), ma si cerca di ricostruire le motivazioni che lo spinsero a comporre la celeberrima Nona Sinfonia, conosciuta meglio come Inno alla gioia, e di comprendere se si trattò davvero del trionfo che la maggior parte dei critici citano quando si trovano a discuterne. Per arrivare a svelare questo grande enigma (?), Baricco si lascia prendere la mano da un’ipertrofia visiva assolutamente deleteria, conducendoci in meravigliosi quanto vacui e inerti panorami montuosi, lasciandoci alla mercé di un’accolita di pazzoidi che, non si riesce a comprendere per quale astruso motivo, vorrebbero ricostruire l’intera vicenda affidandosi agli elementi naturali – il ghiaccio, gli uccelli, il vento, il fuoco –: o meglio, il perché si capisce (stiamo pur sempre assistendo alla messa in scena, contorta e a sua volta vacua, della famigerata Lezione ventuno, quella che gli studenti del professor Kilroy ricordano ancora con immutato stupore) ma davvero non si riesce a condividere lo sforzo.  Riconosciamo a Baricco un paio di intuizioni: l’ouverture, coerentemente beethoveniana, che attacca lo spettatore con un bombardamento di immagini e di parole che neanche l’Eroica reggerebbe il confronto, e la bella sequenza in cui finalmente – ma siamo già a ridosso dell’ora dall’inizio del film – viene spiegata e studiata la struttura della Nona Sinfonia. In quei cinque/dieci minuti riusciamo davvero a leggere un percorso autonomo e affascinante in questa pellicola che per il resto declama parole, edifica immagini e comprime suoni a uso e consumo di un pubblico intellettuale pronto a farsi ammaliare dal puro incanto del mito (ovviamente Beethoven, ma temiamo anche Baricco). Ma, a essere sinceri, non è neanche la sublime inutilità del novanta per cento di ciò che ci viene mostrato, ad averci profondamente disturbato: rientra, questo, nell’idea che nel corso degli anni ci siamo fatti dell’arte di Baricco, un grande affastellamento di “poeticherie” destinate a disperdersi prima di aver centrato l’obiettivo verso cui erano state lanciate.

No, ad affossare definitivamente Lezione ventuno e a renderla a suo modo un’opera “pericolosa” è la riflessione che Kilroy (e di conseguenza Baricco, perché non v’è mai dubbio che l’identificazione da fare sia questa) fa dell’arte, nella sua casa/bowling, rivolto alla sua studentessa modello: non stiamo qui a dilungarci, ma il senso ultimo dell’intero discorso è che, in fin dei conti, il vero motivo per cui L’inno alla gioia è da considerarsi un’opera sopravvalutata e tutt’altro che un capolavoro risiede nel fatto che si sia dimostrato, all’epoca, un fragoroso insuccesso di pubblico. Insomma, ciò che incassa è ciò che vale, pare dirci Baricco (e sorvoliamo sul discorso sulla vecchiaia, vista come un’era della vita nella quale è impossibile raggiungere la bellezza e lavorare sull’arte), un’affermazione a dir poco apodittica e ampiamente smentibile. Ennesima dimostrazione di un egocentrismo culturale che azzanna la pellicola e la riduce a brandelli, lacerti di un percorso cinematografico privo di forza e personalità, freddo come i suoi scenari e pacchiano come l’umanità che vi è concentrata all’interno. Ci viene dunque da proporre un quesito a Baricco: se è vero ciò che afferma nei confronti di Beethoven, cosa dovremmo pensare di Lezione ventuno qualora si dimostrasse un fallimento al botteghino? Se l’onestà intellettuale di cui teorizzava Kilroy nel 1999 appartenesse al suo romanziere, bisognerebbe considerarlo un film “brutto”, o quantomento terribilmente sopravvalutato. Come è abitudine dire, chi vivrà vedrà.

Info
Il trailer di Lezione ventuno.

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