L’ultima ruota del carro

L’ultima ruota del carro

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Ernesto è un uomo semplice che tenta di seguire le proprie ambizioni senza però mai perdere i valori veri della vita. Tappezziere, cuoco d’asilo, traslocatore, autista, comparsa del cinema. [sinossi]

Sembra sempre più paradossale e drammatica la crisi di idee che avvolge il cinema italiano, risparmiando solo i grandi autori e i film più piccoli e appartati. Ne è testimonianza L’ultima ruota del carro, nuova fatica di Giovanni Veronesi presentata, in modo un po’ improprio, come film di apertura dell’ottava edizione del Festival di Roma. Quello che stupisce e preoccupa sempre di più non è ormai il conclamato approdo ai toni da commedia – visto che Veronesi è un regista di commedie – quanto l’incapacità evidente nel riuscire a maneggiare il racconto, le difficoltà nel costruire una storia – semplice o difficile che sia – con coerenza, cercando di seguire un filo di concause e di consequenzialità.
Testimoni di questa empasse sono stati in tempi più o meno recenti il Soldini di Il comandante e la cicogna e l’Ozpetek di Magnifica presenza (o, anche, il Salvatores di Happy Family e di Educazione siberiana), ma nel caso di L’ultima ruota del carro il discorso si fa ancora più eclatante, avvicinandolo al recente fallimento di Pazze di me di Fausto Brizzi.

Il difetto maggiore sembra di poterlo cogliere in una strutturazione a gag ed episodi a sé stanti incapace di tessere un discorso compiuto, e spesso appesantita persino da siparietti comici aggiunti evidentemente a bella posta per strappare una risata o almeno un mezzo sorriso (personaggi che si strozzano mentre mangiano o quant’altro). In L’ultima ruota del carro il tutto sembra ancora più evidente e stonato proprio perché si tratta – nelle intenzioni – di un affresco storico dove la narrazione dovrebbe essere solida e ben calibrata, tra rimandi ed ellissi.
Veronesi invece racconta la vicenda di un’ “ultima ruota del carro” – ispirandosi alla vita di un autista di produzione suo amico – come se non stesse pensando a tutta la parabola narrativa, che attraversa un arco di quarant’anni, quanto ogni volta alla singola sequenza, dimentico di quel che è successo prima e di quel che succederà dopo nel film.

Si dirà che Veronesi ha osato troppo nel cercare di “atteggiarsi” ad autore invece che a “semplice” confezionatore di commedie. E in parte può essere vero, ma non dimentichiamo che la grande commedia all’italiana era fatta anche di racconti a largo spettro, di narrazioni ampie, come ad esempio La grande guerra o Una vita difficile, film che comunque non cercavano di proporre una dinamica autoriale, quanto di raccontare una storia e di cercare di esperire gli umori – passati e presenti – del paese. È quel che vorrebbe cercare di fare lo stesso Veronesi – senza quindi lanciarsi nel campo dell’autorialità – ma forse il punto in cui fallisce in maniera ancora più eclatante è proprio in quei momenti in cui prova a inserire la Storia, dall’omicidio di Aldo Moro al berlusconismo, passando per la vittoria ai Mondiali dell’82. In questi casi gli eventi irrompono senza alcuna mediazione narrativa e non vengono mai visti attraverso gli occhi dei personaggi, quanto con il grado zero della rievocazione cronachistica, altri tasselli/sequenze di un puzzle i cui pezzi sono ben lontani dall’incastrarsi. Palese, in tal senso, appare la vicenda del pittore incarnato da Alessandro Haber (che, pure, è bravo), una vicenda completamente aliena dal resto e in cui non si riesce a capire come sia nata l’amicizia tra questo maestro del gesto informale e un uomo così privo di interessi come il protagonista. Un’altra nota di demerito, purtroppo, va alla recitazione, con Alessandra Mastronardi nel ruolo della moglie del protagonista visibilmente spaesata al punto da sembrare sempre sul punto di guardare in macchina per chiedere indicazioni al regista, mentre – purtroppo – Elio Germano, nei panni del nostro eroe, si ritrova nella parte peggiore della sua carriera. Inutilmente gesticolante, insicuro, incapace di tenere la scena, il nostro ultimo attore capace di vincere la Palma d’Oro conferma un’involuzione che era già ravvisabile sempre in Magnifica presenza, ma anche in Padroni di casa (dove veniva surclassato da Mastandrea).
Un disastro insomma da cui non si salva nessuno e in cui è coinvolto in prima persona Domenico Procacci della Fandango che conferma il periodo negativo della sua casa di produzione, sbagliando ancora una volta (dopo, in ordine sparso, Tutto tutto niente niente, Gli sfiorati, La scoperta dell’alba, È stato il figlio, Mi rifaccio vivo, Magnifica presenza, ecc.)
Ancora una volta perciò viene la tentazione di lanciarsi nell’ennesimo grido d’allarme nei riguardi del nostro cinema medio, ma forse ormai è troppo tardi. Non ci resta che Zalone…

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