Teneramente folle

Teneramente folle

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L’esordio alla regia di Maya Forbes, Teneramente folle, già presentato al Sundance e al Festival di Torino, soffre di un approccio furbo e ruffiano alle tematiche che affronta, malgrado qualche buona intuizione sociologica e la prova convincente di Mark Ruffalo.

Emozioni polarizzate

Boston, fine anni ’70: Cam Stuart, sofferente di disturbo bipolare, cerca di conquistarsi l’affetto delle sue due figlie, dopo un periodo trascorso lontano da casa a curarsi. Quando sua moglie Maggie è costretta a spostarsi a New York per un master, per dare alla sua famiglia una più solida base economica, Cam resta da solo ad occuparsi delle due bambine. Con non poche difficoltà… [sinossi]

È curioso che l’esordio alla regia di Maya Forbes venga distribuito in sala, in tutto il mondo, solo oggi, dopo la presentazione al Sundance a gennaio 2014, e gli ulteriori passaggi in varie manifestazioni internazionali (tra queste, l’ultima edizione del Festival di Torino). Curioso perché Teneramente folle (più significativamente intitolato Infinitely Polar Bear in originale) si inserisce perfettamente nell’onda lunga dei prodotti che tendono a rappresentare la malattia e il disagio in forma di commedia; puntando molto sulla forza di interpreti di grande esperienza (qui Mark Ruffalo), ma anche su una messa in scena accattivante, dinamica, non priva di un certo grado di furbizia.
Cambia poco, in fondo, che si tratti di opere mainstream o di prodotti indipendenti: al di là della diversa patina esterna, il mood ricercato da film come l’Academy-oriented Il lato positivo – Silver Linings Playbook di David O. Russell, o, per spostarsi in Europa, dall’acchiappa-incassi La famiglia Bélier, non è poi lontano da quello di questo esordio della Forbes. Forse, vista l’inflazione di tematiche analoghe, si è opportunamente scelto di ritardare l’uscita di questo esordio, concentrandola in un periodo (quello estivo) tradizionalmente più indicato per evidenziare le differenze, più che le uniformità; forse, la stessa regista ha pensato (legittimamente) di fare in modo che il prodotto godesse di un’attenzione più specifica, dato anche il suo carattere autobiografico.

Sia quel che sia, nel bene e nel male, Teneramente folle non sembra nemmeno un esordio. Non lo sembra, perché la Forbes, nel dirigerlo, appare del tutto sicura di sé, del tipo di coinvolgimento che ricerca e dei mezzi, narrativi e cinematografici, con cui lo persegue. Intanto, il suo film si immerge, efficacemente, in un clima del tutto peculiare, quello che parte dalla fine degli anni ’60 e abbraccia tutto il decennio successivo: le prime immagini del film, quei fotogrammi sgranati di un homemade movie familiare, testimonianza ricostruita di un periodo a cui molti (direttamente o indirettamente) restano legati, testimonia chiaramente della volontà di cullare lo spettatore con sapori, colori, suoni direttamente legati a quegli anni.
Che poi la patina nostalgica del film sia, in realtà, attentamente studiata, che il passato richiamato resti più che altro frutto di una costruzione fantastica (vengono in mente le parole di un pezzo dei Soul Asylum – “I’m homesick for the home I’ve never had”) in fondo poco importa: fin dall’inizio, la messa in scena punta a ricostruire gli anni ’70 e a compiacere coi suoi simboli e le sue immagini quello spettatore che vi si senta, istintivamente, legato. L’alone ricercatamente vintage del film della Forbes si esprime anche nella scelta del commento musicale, tutto improntato a sonorità folk-rock legate direttamente o indirettamente a quegli anni: una scelta a tratti invasiva, in cui spesso la colonna sonora, più che un supporto, appare una facile scorciatoia emotiva.

Più in generale, tutto Teneramente folle punta a compiacere lo spettatore in modo esplicito, a invitare ad alta voce all’empatia, a tenere elevata la temperatura emozionale con una sorta di abbraccio (cinematografico) soffocante quanto interessato. La misura non sembra rientrare tra le preoccupazioni della regista, che calca volutamente la mano sull’isolamento emotivo del protagonista, sulle schermaglie familiari che rovesciano i ruoli genitoriale e filiale (con due giovani interpreti – una delle quali è la figlia della regista, Imogene Wolodarsky – che non brillano esattamente per simpatia), sui periodici allontanamenti e riavvicinamenti di un balletto emotivo solo apparentemente episodico, in realtà preparato da un attento coreografo.
Non ha neanche, il film della Forbes, i tratti esplosivi ed emotivamente straripanti del melò, considerata la scelta (anch’essa astuta, e in linea col gusto spettatoriale contemporaneo) di virare in commedia gran parte dei momenti-chiave della storia; affidandosi, in buona misura, a un Mark Ruffalo che conferma una volta di più la sua versatilità attoriale. La regia, anch’essa esplicitamente ammiccante al gusto moderno, si adegua alle oscillazioni umorali del personaggio di Ruffalo, restando all’insegna del dinamismo, di un nervosismo programmatico; esteticamente giustificato solo dalla voglia di far passare, in modo forzoso e inevitabilmente parziale, il punto di vista del protagonista direttamente dall’altra parte dello schermo.

Cosa resta, dunque, di un esordio che sembra puntare a farsi bere avidamente e d’un fiato, per poi lasciarsi altrettanto rapidamente dimenticare? Resta invero, al di là delle convincenti prove di Ruffalo e di Zoe Saldana, un certo acume sociologico nel descrivere la realtà familiare del periodo, la lotta coi denti della protagonista (in pieno periodo post-femminista) per spezzare le gabbie di un imperante modello familiare borghese, intaccato solo superficialmente dalle lotte del decennio passato. La giustapposizione del disagio mentale di Ruffalo con quello sociale della sua controparte, lo stigma (malcelato) che quest’ultima deve subire per la sua decisione di costruirsi un percorso lavorativo, la rappresentazione dello scontro del protagonista con la sua famiglia d’origine, emergono come la componente forse più interessante della sceneggiatura. Così come resta interessante l’apparente inversione dei ruoli moglie/marito all’interno dello stesso nucleo familiare, in una fase storica in cui gli stessi ruoli erano caratterizzati (ancora) da rigida codifica: al punto che persino un uomo bravo ai fornelli è fonte di sospetto e risatine soffocate. Piccole finezze di script, che testimoniano di un acume, nella resa del contesto e delle peculiarità del setting, che resta tuttavia soffocato da un approccio eccessivamente “urlato” alla narrazione, e da una ruffianeria nella messa in scena che, inevitabilmente, relega in secondo piano le (pur presenti) buone intuizioni.

Info
Il trailer di Teneramente folle su Youtube.
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