Vogliamo i colonnelli

Vogliamo i colonnelli

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Restaurato in 4k dalla Cineteca Nazionale, Vogliamo i colonnelli di Mario Monicelli è un esempio di farsa sanamente sguaiata, aggressiva e disperata. Con uno strepitoso Ugo Tognazzi, mai così sublimemente volgare. Per Venezia Classici.

Nostalgia tutte le teste si porta via

Un’inchiesta televisiva ricostruisce le fasi salienti di un golpe fascista avvenuto in Italia agli inizi degli anni Settanta. A capo di un gruppo di decrepiti nostalgici si erge il volgarissimo onorevole Tritoni, una bomba di primitivi istinti virili. La vicenda avrà esiti imprevedibili. [sinossi]

“La parola d’ordine è vincere, e vinceremo”. Le nostalgie sono dure a morire, figurarsi poi nella sconquassata Italia d’inizio anni Settanta, quando il disagio sociale, proveniente da lontane e irrisolte cause, iniziava a salire alle stelle e la paura dei comunisti era ancora tangibile, ben alimentata ad arte da istituzioni e mass-media. E cosa di meglio, nelle distorte logiche fasciste di nostalgici della prim’ora, industriali dell’ultima e alti prelati di sempre, di un bel golpe che instaurasse un regime autoritario proclamandosi per garante della pace sociale e dell’ordine? Nel dicembre del 1970 il golpe Borghese era rientrato all’ultimo secondo, ma in quegli anni non era di certo l’unico progetto di presa violenta del potere in Italia. Intanto in Europa era già emerso un modello da seguire, ben sostenuto dagli Stati Uniti: la Grecia dei Colonnelli, dalla quale si potevano attingere metodiche, strategie e magari anche qualche gerarca che fungesse da consulente. Poco dopo l’uscita nelle sale di Vogliamo i colonnelli sarebbe avvenuto anche il golpe cileno di Pinochet. L’idea d’autorità è dura a morire: dà un perverso senso di sicurezza, deresponsabilizza dall’obbligo di pensare e formulare proprie idee. Il Potere che pensa al posto nostro è la grande madre premurosa che non smette mai di preoccuparsi. Nutre, organizza la vita di tutti, e annienta.

Tramite il lavoro della Cineteca Nazionale Vogliamo i colonnelli di Mario Monicelli è stato restaurato in digitale, in 4k, e riproposto in laguna nella sezione Venezia Classici. La questione è ormai annosa: ha senso riadattare al nuovo supporto tutto il cinema pregresso alla comparsa del digitale, rifiutando l’idea del restauro e proiezione in pellicola? Ovviamente no, visto che il supporto è parte integrante dell’opera. I film pensati e realizzati in pellicola andrebbero visti ancora in pellicola, tutto qui. Questione tautologica: questione chiusa. Purtroppo il futuro non è altrettanto tautologico, poiché per i suoi innati vantaggi il digitale si è avviato a una decisa supremazia in ogni campo audiovisivo, ma non possiamo esimerci dal difendere la pellicola ogni volta che se ne presenta l’occasione.
Ciò detto, rivedere Vogliamo i colonnelli è stato un grande piacere. Tra i film di Monicelli meno ricordati, si tratta di una farsa sanamente aggressiva e sbrindellata, spesso fuori controllo e animata da macchiette volutamente grossolane. Ma per questo anche estremamente divertente, in quanto esibizione dell’esibizione, grottesco di secondo livello con palese intenzione di aderire a una comicità spesso degradata.
Nel 1973 l’Italia democratica è alle soglie del degrado morale, sociale e istituzionale. Monicelli e i collaudati Age&Scarpelli rispondono pan per focaccia, calibrando la grana sguaiata del registro comico alla materia narrata. Come accennavamo, il film ricostruisce un golpe mai avvenuto nel nostro paese, con chiari riferimenti però ai venti autoritari che soffiavano nell’Italia e nell’Europa di quegli anni.
La macrostruttura narrativa è decisamente originale per il cinema nazionale del tempo: una finta inchiesta televisiva che riferisce le fasi salienti tramite le quali si è arrivati all’instaurazione di un secondo regime autoritario nella penisola. Dopo che un manipolo di decrepiti parlamentari ed extra-parlamentari di estrema destra, all’ordine del gagliardo onorevole Tritoni, ha visto fallire il suo piano scalcinato di presa del potere, le istituzioni democratiche ne approfittano soffiando sulla paura della gente. È la strategia della tensione, che prevede l’inasprimento del Potere a seguito di una generale inquietudine sociale costruita ad arte. Così, da qualsiasi parte si vada a cadere, il destino di questa tetra finta-Italia (?) è comunque nella dittatura.

All’epoca della sua uscita nelle sale Vogliamo i colonnelli suscitò reazioni contrastanti. Molti ne stigmatizzarono l’apparente spirito qualunquistico, la ferocia satirica che si scagliava contro tutto e tutti, senza risparmiare anche la DC e il PCI del tempo. È indubbiamente vero che Monicelli, Age&Scarpelli sparino ad alzo zero, gettando dentro lo stesso isterico calderone tutto l’arco istituzionale di allora, avvolto in uno sguardo spietatamente negativo e sulfureo. Con consueti distinguo, ovviamente: i personaggi dei parlamentari comunisti, “colpevoli” di aver dato troppa risonanza pubblica al tentativo di golpe, vengono pretestuosamente fermati dalla polizia e finiscono nel ruolo di vittime ben intenzionate. Ma, nel corso del racconto, Monicelli non risparmia neanche a loro qualche stoccata, accusati da un giornalista extraparlamentare (a sua volta uno sciagurato poverocristo) di essersi imborghesiti sulle poltrone di Montecitorio e Palazzo Madama, in un progressivo disinteresse verso i reali problemi del paese.
L’attacco satirico è quindi innegabilmente scagliato a largo raggio. Anzi, a raggio totale. Ma semplicemente perché Monicelli, che pure si è dichiarato a lungo socialista, al contrario nella sua arte è stato sempre un anarchico della più pura specie, insofferente a qualsiasi forma di potere al di sopra dell’essere umano.
La macrostruttura di Vogliamo i colonnelli è decisamente sui generis, e l’adozione del linguaggio da inchiesta-tv informa in parte anche il commento musicale di Carlo Rustichelli, che ricorda certi motivetti da sigla di dossier televisivo (in tal senso sono funzionali anche i titoli animati di testa). Tuttavia si tratta di un camuffamento non rigoroso, e a poco a poco il film si conforma a una riproposizione della scalcinata banda maschile, rintracciabile in alcune delle maggiori opere monicelliane: tanto per citarne alcune, I soliti ignoti, L’armata Brancaleone, Amici miei, anche il tardo Cari fottutissimi amici. Da I soliti ignoti discende in modo più stringente l’idea del piano fallimentare organizzato da un gruppo di balordi, che occupa in entrambi i film tutta l’ultima parte. Dell’Armata Brancaleone ritroviamo il gioco sulla lingua: là un inarrivabile e reinventato slang medievale, qui la pesante caratterizzazione regionale di tutti gli ex-gerarchi, ulteriormente enfatizzata dal ricorso a nomi parlanti.

Nel suo insieme, Vogliamo i colonnelli è dominato dagli schemi della farsa sbrindellata di antichissima memoria, zeppa di facilissime volgarità e retoriche virili, tanto fasciste quanto del resto puramente italiane. Per far questo, Monicelli cuce intorno a Ugo Tognazzi un personaggio di vulcanico livornese, onorevole fascista che più di tutto tiene all’espletamento dei suoi bisogni virili. Un uomo ridicolo ed eternamente in calore, inserito in una generale estetica del brutto, a cui Monicelli ritornerà spesso lungo tutti gli anni Settanta (basti pensare a Romanzo popolare, studio impietoso sulla patetica fisicità di un uomo che rifiuta d’invecchiare, ancora impersonato da Tognazzi).
Per Tognazzi si tratta in qualche modo di un ritorno alle origini, riscoprendo le risorse del macchiettone caricaturale che aveva caratterizzato i suoi esordi nel varietà, in tv e al cinema. Malgrado la scarsa riuscita nel dialetto toscano, riscontrabile anche nel conte Mascetti di Amici miei, l’onorevole Tritoni è una bomba di sublime sguaiataggine, gigantesca personificazione della Grande Volgarità Italiana.
Ma Vogliamo i colonnelli s’inserisce in realtà in una generale trasformazione della nostra commedia, che da cinica (anni Sessanta) diventa puramente disperata (anni Settanta). Di più: disperata e inquietante, alzando costantemente la posta in gioco dello sberleffo. Nel 1973 siamo solo agli inizi, ma lungo tutto il decennio la risata nazionale andrà incontro a un agghiacciante irrancidimento. Penso a certi episodi di I nuovi mostri, a Un borghese piccolo piccolo (il punto di non-ritorno: un’indubitabile tragedia declinata dai moduli espressivi della nostra commedia), a L’ingorgo.
Il panorama socio-culturale si fa sempre più plumbeo, e la commedia si adegua. Per Monicelli e i suoi coetanei diventerà la norma scherzare ferocemente su ipotesi di golpe, terrorismo, violenza urbana e sequestri di persona. Per cui, il presunto qualunquismo di Vogliamo i colonnelli non è altro che il frutto di un moralismo estenuato dalle effettive condizioni del nostro paese. Si diventa disperati, quando nessuno è più in grado di farci sperare.

Info
La scheda di Vogliamo i colonnelli sul sito della Biennale.
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