Il potere

Il potere

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Il capolavoro di Augusto Tretti, una messa alla berlina del potere che non lascia scampo, e che viene condotta da uno spirito cinematografico privo di qualsiasi confine.

Lui era un autarchico

Il film descrive in maniera surreale le dinamiche dell’acquisizione del potere nelle varie epoche storiche, dalla preistoria al consumismo dell’Italia contemporanea, passando per l’Impero romano, la conquista del West a spese dei nativi indiani, il ventennio fascista. Le varie scene sono commentate da tre belve, un leone, una tigre e un leopardo, rappresentanti rispettivamente il potere militare, il potere economico, e il potere agrario. [sinossi]

Quanti registi, per niente “intessuti” nel sistema, hanno dovuto rincorrere i produttori, implorare pochi spiccioli per portare a termine i propri film, dormito con le bobine dell’incompiuto sotto il letto, in attesa di tempi migliori? Troppi, senza dubbio troppi. La storia del cinema italiano – ma di ogni cinematografia – è piena zeppa di autori che, senza santi in paradiso e protettori nelle aule del potere, hanno dovuto sudare e lottare per potersi permettere quella che i più sintetizzano con il termine “carriera”. Ne è un esempio recente quello di Claudio Caligari che, dopo essere stato ridotto quasi al silenzio con tre film diretti in trent’anni (Amore tossico, L’odore della notte e Non essere cattivo), ha ottenuto gloria e onori solo dopo la morte, con l’ultimo titolo preso per mano fin dalla proiezione alla Mostra di Venezia e portato fino alla candidatura dell’Italia ai prossimi premi Oscar per il miglior film straniero.
Un altro esiliato dal sistema fu Giulio Questi, che lo scorso anno – appena prima di morire – fece in tempo a essere omaggiato dal Torino Film Festival, dimostrando anche a un pubblico di giovani che non avevano mai maneggiato la sua filmografia quale fosse il significato di termini come “stile” e “pensiero politico”. Trecentosessantacinque giorni dopo l’omaggio in quel del Piemonte tocca a un altro alieno della Settima Arte italiana: Augusto Tretti. Se è giusto far notare come Tretti, esattamente alla stessa stregua di Questi, avesse imparato a imbracciare non solo la macchina da presa ma anche il fucile, in guerra partigiana sui monti contro l’invasore nazista e i fascisti, è perché questa esperienza radicale si riverbererà tanto nel cinema dell’uno quanto in quello dell’altro, e nei modi più diversi.

Questi darà sfogo alla sua esperienza di lotta attraverso la lente deformante del “popolare”, proponendo versioni decisamente personali dello spaghetti-western (Se sei vivo spara), del giallo (La morte ha fatto l’uovo) e dell’onirico (Arcana, la sua opera più misterica e inclassificabile). Tretti, invece, invaderà i territori della commedia per scardinarne ogni meccanismo, a partire dal grottesco ritratto dell’Italia industriale racchiuso nell’esordio La legge della tromba, iniziato nel 1957 e portato a termine in maniera definitiva solo cinque anni più tardi. Nel 1962, infatti, La legge della tromba trova perfino una pur minima distribuzione in sala, grazie all’intervento di Goffredo Lombardo e della Titanus, così entusiasta del lavoro del regista veronese da proporgli un contratto per un secondo film. Un contratto industriale per un autore che non aveva nulla a che spartire con Cinecittà e i suoi modus operandi (e vivendi); ovvio che qualcosa dovesse andare per traverso. E così Tretti viene investito dal fallimento della Titanus, il crollo di un gigante assoluto della produzione cinematografica. Niente più Titanus, e niente più secondo film…
Tretti ha già girato alcune scene, e non poche, de Il potere, e non riesce a rassegnarsi all’idea di doverlo abbandonare; vive quindi con le bobine, simbolo materiale di una sfida all’estabishment venuta meno per i problemi economici proprio dell’establishment. Paradossi. Le nasconde sotto il letto, le tiene al sicuro, le difende come se fossero le cose più preziose che possiede. E forse lo sono per davvero.

Quindi, per le vie criptiche e contorte tipiche dell’indipendenza autoriale, il regista veronese riesce a trovare due produttori decisi a dargli una mano a terminare il film. Quando Il potere trova finalmente la via di un pubblico – seppur minimo, visto che Tretti è rimasto sconosciuto ai più per tutto l’arco della sua vita – l’Italia ha già dimenticato le illusioni del boom e sta iniziando ad annaspare nel riflusso, economico e ideologico. In un paese slabbrato e in pieno stato confusionale, il rigore quasi ascetico di Tretti appare una bestemmia urlata contro il cielo.
Abituato a girare con pochissimi elementi a disposizione, e a barcamenarsi con budget che la gran parte dei suoi colleghi vedrebbe utile al più per un cortometraggio, Tretti dimostra una volta per tutte la differenza tra amatorialità e teoria dello sguardo. Non c’è un solo elemento, nella sarabanda metaforica de Il potere, che possa essere guardato con la benevolenza che si concede, dall’alto di una supposta postura intellettuale, agli “ingenui”. Nello scambiare la professionalità con l’arte, Tretti è stato ridotto per molti anni a scherzo anche ben riuscito ma pur sempre relegato in un angolo. Uno sberleffo contro il cinema “istituzionale”. La sua, invece è stata una sfida ben più alta, e difficile da ripetere. Tretti non ha cercato vie alternative alla prassi, ha negato con forza la prassi, l’ha abiurata, l’ha volutamente vilipesa. Nel suo rigore, nella forza logica della sua messa in scena, non c’è nulla di improvvisato, o di casuale.
Appare difficile trattenere le risate di fronte a Il potere, grazie al surrealismo e all’estro patafisico di una scienza esatta: la scienza umana. Era già così ne La legge della tromba e sarà così anche in Alcool e Mediatori e carrozze. E sarebbe ingiusto trattenerle quelle risate, perché Tretti ha saputo cogliere l’essenza del potere, la sua sgualcita e ridicola posa, la sua grossolanità inevitabile. Anche i meccanismi del cinema, i trucchi e i generi, sono utensili nelle mani di Tretti, che li utilizza senza lasciare che a prendere il sopravvento sia un rigurgito citazionista, o un innamoramento dell’occhio.

Lo sguardo di Tretti è l’unico, ma non per questo meno dialettico. Tretti, con una scelta non molto condivisa dall’eletta schiera dei suoi colleghi, assolutizza per negare l’assoluto, utilizza il mito (il volto di Mussolini) per smitizzarlo e mostrarne il vuoto che lo domina. Un anno prima di morire, nel novembre del 1971, Ennio Flaiano affermerà con acutezza come Tretti non sia un personaggio isolato, ma piuttosto da isolare. Come accaduto per altri registi inadatti al sistema, allergici ai salotti e alle terrazze, anche Tretti verrà riposto in un angolino, pronto all’elogio pubblico quanto al boicottaggio sistematico privato. Il suo è un cinema scomodo, ma non per il pubblico, ed è ora di affermare una verità troppo spesso taciuta: Tretti va visto, non discusso e analizzato. I suoi film non hanno bisogno di presentazioni o spiegazioni, perché possiedono un aspetto del popolare che troppo spesso viene trattato con disprezzo: la chiarezza. L’eloquio dei suoi film è nitido, impossibile da confondere o fraintendere.
Come altri splendenti esempi del cinema “sotterraneo” italiano – Anna di Grifi/Sarchielli, A mosca cieca di Romano Scavolini, L’imperatore di Roma di Nico D’Alessandria, In punto di morte di Mario Garriba, perfino un intervento saggistico come Sul davanti fioriva una magnolia di Paolo Breccia – anche Il potere raggiunge il pubblico con una forza che l’occhio del critico fatica a comprendere. La sua pretesa avanguardia è tale solo per la retroguardia guardinga di un universo cinefilo e “di sistema” che non ha alcuna intenzione di condividerne il tono, tra il tragico e il comico, tra il reale e il fantastico. Tretti è stato un regista osteggiato, e ancora oggi trattato come materia infiammabile, pericolosa. Destinarlo finalmente alla massa, come sarebbe dovuto essere fin dall’inizio, è un dovere a cui nessun amante sincero della Settima Arte può sottrarsi.

Info
Il potere, l’incipit.
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