Dead Man

Dead Man

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Dead Man è il capolavoro di Jim Jarmusch, un western lisergico in pieno deliquio pre-morte, guidato da un Johnny Depp all’apice della sua carriera.

Viaggio al termine della morte

Dopo intere nottate in treno, William Blake, un giovane di Cleveland, arriva a Machine, un tetro e sinistro villaggio, dove è stato assunto come contabile. Ma uno strambo boss del luogo, John Dickinson, ritenendo tardivo l’arrivo lo caccia via puntandogli il fucile addosso. Una prostituta uscita da un locale ospita William a casa sua: qui giunge l’amante Charlie, figlio del boss, che la uccide e poi spara a William Blake, ferendolo gravemente al petto, restando però ucciso… [sinossi]
Every night, and every morn,
Some to misery are born.
Every morn, and every night,
Some are born to sweet delight.
Some are born to sweet delight.
Some are born to endless night.

[trad.] Ogni notte e ogni mattina
nascono alcuni alla rovina
nascono alcuni al soave diletto,
nascono alcuni all’infinita notte.
William Blake, Auguries of Innocence, 1863

Dead Man, storia del William Blake ‘sbagliato’ che deve sfuggire alla caccia di tre bounty killer assoldati per ucciderlo (ma è già morto, con quel buco in petto che lo dissangua), è un viaggio di purificazione nella società americana. Il Mito dell’America, quello con la m maiuscola, ha sempre attraversato il cinema di Jim Jarmusch, fin dal vagare sperduto per New York di Permanent Vacation; un mito che riguarda luoghi, brandelli di memoria collettiva, ipotesi di genere. Se Down by Law guardava al film carcerario per ridefinire il senso del termine liberazione, Dead Man sprofonda nelle radici stesse degli Stati Uniti. Torna alle origini, che parlano di una terra conquistata a suon di dollari, ma soprattutto a colpi di fucile. Una terra presa, ghermita con atto ferino, privo di pietà. John Dickinson/Robert Mitchum, che ha assunto a distanza William Blake per poi rimpiazzarlo – nell’America che sta assaggiando il frutto del Capitale non si può perdere tempo, perché come insegna Paperon de’ Paperoni “il tempo è denaro” –, è pronto a puntare il fucile contro tutti quelli che gli si parano davanti, e alle sue spalle è impagliato un grizzly. Il grande orso è immobile nella postura di un attacco impossibile, e ha la bocca spalancata in un rugliare inascoltabile. Come sempre in Jarmusch l’uomo è il più bestiale degli animali, il dominatore mostruoso. In Ghost Dog, che può essere considerato un film-gemello di Dead Man, il suo rovescio a colori, il protagonista elimina due bracconieri che hanno appena ucciso un orso; prima di sparare il colpo definitivo a uno dei due chiede “Sai che gli orsi nelle antiche culture erano considerati uguali agli uomini?”. La risposta del cacciatore fuori legge è sintetica: “Che c’entra? La nostra non è un’antica cultura”. No, quella statunitense non è un’antica cultura. E spara, che sia legale o no. Dopotutto il II emendamento fa parte della Costituzione dalla fine del ‘700, e recita al di là di ogni possibile interpretazione che “A well regulated Militia, being necessary to the security of a free State, the right of the people to keep and bear Arms, shall not be infringed”.

Il diritto dell’uomo di possedere un’arma non può essere infranto, e così tutti a Machine, la desolante cittadina in cui si ritrova William Blake per un lavoro che non otterrà, sfoggiano una pistola nella fondina. Il giovane uomo dopotutto arriva in città già ferrato su quella che è la sua principale attività, “la costruzione di bare”, come gli ricorda un uomo sul treno. La macchina (Machine) è ferma, si può solo uccidere, un po’ per sfizio, un po’ per gioco, un po’ per necessità. Alla base del lavoro di Jarmusch persiste l’idea di sogno come viaggio nella società, attraversamento – e nel caso di Dead Man è proprio il termine adatto – della vita sociale per giungere a una fine a suo modo purificatrice, per quanto inutile questa purificazione sia. L’unica destinazione possibile per William Blake è la morte, che ha già in corpo nonostante rimanga in piedi, e uccida, a sua volta. L’unica destinazione per chiunque è la morte, in un paesaggio splendido che diventerà dantesco, inferno costruito dall’uomo per l’uomo, e dal quale può esistere una sola via d’uscita. La consapevolezza di Blake/Depp, mentre è in agonia nell’ultima sequenza, non ha più alcun peso, non porterà nessuna reale conoscenza alla società. Morirà in lui, come una poesia mai scritta. Perché Blake (quello “falso”, checché ne pensi il nativo Nessuno, che lo accompagna e lo guida come un Virgilio post-moderno) non sa scrivere poesie, se non con la colt che si ritrova tra le mani.
Il viaggio che Johnny Depp compie nel film è un viaggio che lo conduce alla radice stessa della sua esistenza, ed è un viaggio in dissolvenza: il paesaggio che lo circonda è opaco, confuso, mai realmente distinguibile, un mondo violento che quest’uomo ferito a morte attraversa, perduto eppure quasi inattaccabile, senza una meta apparente (e conosciuta in realtà solo da Nessuno), in fuga, semplicemente in fuga; una fuga che trascina nell’oblio, e conduce al bianco del mattino e a una barca persa nell’immensità del mare. Il finale di Dead Man sembra la versione ieratica di molte conclusioni dei film dell’Aki Kaurismäki della prima ora (Calamari Union, Ariel, Ombre nel Paradiso), e com’è noto i punti di contatto tra le poetiche espressive dei due registi sono evidenti.

Se il Dante “nel mezzo del cammin di nostra vita” è un vivo che si ritrova, in uno stato di “sogno reale”, a viaggiare nella morte per tornare a riveder le stelle, Blake torna a sua volta a riveder le stelle (o il cielo che lo sovrasta mentre viene trascinato via dall’acqua) ma lo fa in uno stato di “veglia onirica”. È già morto prima ancora di arrivare a Machine, su quel vagone in cui vede altri sparare dal finestrino. È un uomo che nella terra del Mito non sa trovare un proprio spazio; si reca in una wilderness domata, ma ancora più violenta, e ne esce distrutto. All’esatto opposto del paradigma western, William Blake non è un avventuriero, non sa quasi andare a cavallo, uccide il suo primo uomo quasi per caso, per reazione istintiva a un colpo che l’ha centrato in pieno petto. Visto che il fato ha già deciso per lui, decide di muoversi per libero arbitrio. Rivendica dunque la propria essenza umana, in un microcosmo che è quasi meccanico, industriale ripetizione coatta di situazioni, eventi, storie. Uomo contro sistema, Blake diventa fuorilegge perché non può essere altro che quello.
Nella “veglia onirica” Blake è ancora vivo, per quanto già morto. La sua esperienza onirica non risiede nella morte, ma in quel limbo in cui si muove, tra alberi millenari e improvvisate costruzioni umane, teepee costretti in un ghetto e balordi di ogni tipo. In quel passaggio dalla vita alla morte Blake è catatonico, febbricitante, in pieno delirio. Per questo non è più parte di un sistema già distrutto. Per questo è morto. Per questo è ancora vivo. Vivo nell’infinita notte che cantò il suo ben più celebre omonimo più di due secoli prima, e dall’altra parte dell’oceano.
In Dead Man Blake diventa davvero consapevole della situazione in cui si trova e del modo in cui deve affrontarla solo in occasione della sua visita all’emporio. Blake si è appena ricongiunto con Nessuno, che gli spiega come i nativi contraggano malattie come il vaiolo e la tubercolosi attraverso le coperte infette che i bianchi barattano con loro. Blake gli regala un Winchester che ha preso a due uomini che ha ucciso. Vede molti manifesti con il suo volto affissi all’ingresso dell’emporio e ne regala uno a Nessuno. Il proprietario lo accoglie con gentilezza, poi si mette a pregare il Signore quando entra Nessuno, che gli chiede se ha del tabacco. Ma il proprietario il tabacco non vuole venderlo ad un pellerossa. Riconosciuto Blake, gli chiede un autografo. Blake gli risponde piantandogli una penna nella mano, poi gli spara.

Per la prima e unica volta dall’inizio di Dead Man Blake ha le idee chiare, gestisce la situazione, si fa carico di una decisione. Eppure, allo stesso tempo, segue uno schema: come da principio il suo ruolo era quello dell’uomo troppo debole costretto da una società violenta e immorale alla fuga, ora accetta quella società e si comporta di conseguenza. Così come la società lo vede pericoloso e violento, spietato e infallibile, lui uccide con freddezza il proprietario dell’emporio: non per difesa stavolta, ma per assuefazione alle regole imposte dalla società.
Per questo il suo viaggio non può che, in ogni caso, condurlo alla morte. Quello di Blake è un viaggio solo all’apparenza spirituale: attraversando i propri stati di incoscienza il protagonista della pellicola attraversa a sua volta una civiltà, quella statunitense, maligna, selvaggia, che segue regole di facciata per poi mostrare il suo vero volto, un volto crudele, spietato, laido.

Ancor più dell’epoca del western crepuscolare, Dead Man è una contro-narrazione dell’epopea della fondazione, uno sguardo disilluso su una nazione che si è costruita sul sangue e attraverso il sangue, sulla prevaricazione continua, incessante, sull’eliminazione capillare del più debole e del non allineato (economicamente, fisicamente, culturalmente). In questo senso si può azzardare più di un legame tra Dead Man e il dittico di Quentin Tarantino composto da Django Unchained e The Hateful Eight, altra rilettura critica del Mito e della sua narrazione orale e scritta.
Se Blake è in fuga è perché la civiltà lo insegue (e lo precede, come dimostrano i volantini con impressa la sua taglia già presenti all’emporio). Una civiltà che uccide: non solo Blake, che ferito a morte cerca di sfuggire al colpo definitivo che deve essere inferto dai tre sicari, ma anche i nativi, come dimostrano i resti dei teepee bruciati fra i quali si intravede, nascosta nel terreno, una macchina da cucire. La civiltà è angoscia, potere, violenza, la fuga è necessaria, e forse l’unica fuga rimasta è il sogno, l’incoscienza, la perdita dei sensi – Blake sviene ripetutamente durante il film, accompagnato sempre da una dissolvenza in nero dell’immagine, marchio di fabbrica di Jarmusch. Il regista nativo di Akron, nell’Ohio, aveva rilasciato questa dichiarazione a Le Monde, nel 1989: “L’America la vedo come la descrivo nei miei film, come un Paese di cui amo tante cose, la gente, i paesaggi, la costituzione: peccato che non venga mai rispettata neppure dai presidenti”.

Jarmusch ribalta l’idea della messa in scena degli Stati Uniti come un ideale, un luogo-sogno in cui tutto è possibile, e ne svela la natura intrinseca di violenza e sopraffazione. Il suo è un ragionamento politico, prima ancora che poetico.
L’unico modo per non farsi appestare da questa società/morbo è dunque attraversarla senza guardarla e senza entrarci in contatto: ciò che fa nel suo delirio allucinatorio Blake. Ma Blake nel suo viaggio apparentemente senza fine si adatta anche alla conoscenza della morte; dopotutto lui stesso, come gli fa notare Nessuno, è un “uomo morto”, visto che il proiettile gli si è conficcato nel corpo e non può più uscire. E la morte altro non è che sogno. Ogni dissolvenza in nero di Dead Man rappresenta la morte del suo protagonista. Ogni assolvenza dal nero rappresenta la sua rinascita, fino all’ultima discesa nel nero.
Una fine che non prevede la fine della violenza, che continua a perpetuarsi a distanza mentre Blake moribondo abbandona le sponde statunitensi per lasciarsi trasportare dalla corrente. Il sogno di Blake è un sogno infinito, è l’infinita notte, e il suo viaggio continua solitario, staccato dal mondo reale. Solo una barca in mezzo all’oceano.

Info
Il trailer di Dead Man.
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