Il treno ferma a Berlino

Il treno ferma a Berlino

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Il treno ferma a Berlino (Berlin Express nel titolo originale) è un classico del noir statunitense, diretto con estrema eleganza da Jacques Tourneur, uno dei primi film a mostrare la capitale tedesca disgregata, e spartita tra le nazioni vincitrici della guerra. Con Merle Oberon, Robert Ryan, Paul Lukas, Charles Korvin, Robert Coote. A Locarno 2017.

La guerra è (in)finita

Sul treno militare diretto a Berlino si trovano riuniti alcuni passeggeri. Una donna francese, Lucienne, un francese, Perrot, un agronomo americano, Robert Lindley, e il dott. Bernhardt, visto con sospetto dagli altri. Proprio lui – scomodo combattente per la pace – viene rapito all’arrivo. Inizia così una lunga ricerca, piena di colpi di scena. [sinossi]

Il treno ferma a Berlino, recita il titolo italiano di Berlin Express, ma cos’è Berlino? Di certo non la capitale del Reich, spazzato via dagli alleati nel 1945, e neanche una città davvero pacificata. La Seconda Guerra Mondiale aveva lasciato dietro di sé un cumulo di macerie, che Jacques Tourneur si guarda dal non mostrare: sotto certi punti di vista si può definire questa sua quindicesima regia come la più direttamente legata a un realismo, per quanto filtrato come sempre dal codice linguistico e dalla lente deformante del genere, nello specifico il thriller non venature noir e retaggi di spy-story. Anche Tamara figlia della steppa, del 1944, si confrontava con l’orrore del conflitto bellico ma, sposando in tutto e per tutto la causa della guerriglia sovietica contro l’avanzare delle truppe naziste, deragliava verso un atto di propaganda a suo modo profondamente commovente. Il treno ferma a Berlino esce nelle sale statunitensi nel maggio del 1948, quando la città tedesca è ancora suddivisa in aree di influenza – comprese quelle britannica e francese – ma non ha ancora vissuto la scissione che diventerà inevitabile con la nascita della DDR: al punto che un cartello introduttivo spiega come le riprese di Berlino siano state rese possibili dai permessi rilasciati dall’autorità statunitense, da quella sovietica e da quella britannica. Ma perché il treno ferma a Berlino? La risposta è fin troppo semplice: fin dalla conferenza di Potsdam tenutasi nel pieno dell’estate nei saloni e negli scenari da Tudor revival del Palazzo Cecilienhof, fu evidente a chiunque come la Germania avrebbe rappresentato il centro del discorso, l’evoluzione del conflitto armato in un’altra tipologia di guerra, meno spettacolare ma non per questo priva delle efferatezze già messe in mostra a carattere globale.
“The War was long over. Something like peace was supposed to be here”, commenta la voce narrante mentre ancora l’azione ristagna – si fa per dire, visto che il film entra in medias res con una rabbia sommessa ma sempre percepibile – in quel di Parigi, una delle capitali dei “buoni”.

Fin dalla sequenza nella Gare de Paris, da dove partirà il treno che è epicentro del discorso, e teatro di parte delle vicende, Tourneur mette le cose in chiaro: Il treno ferma a Berlino sarà un action teso, per nulla compromissorio, elegante e ricco di sfumature che altrove non sarebbero neanche prese in considerazione. Si pensi per esempio alla stratificazione linguistica, con il francese, il tedesco, l’inglese e il russo che si intersecano tra loro, creando ulteriori barriere, vicoli bui nei quali nascondere i propri segreti, o confidarli solo all’occorrenza, e solo alle persone di cui sembra possibile fidarsi. Anche se, la tradizione del genere lo impone, a volte l’apparenza inganna…
A distanza di quasi settant’anni, nel pieno della crisi dell’Europa Unita, Il treno ferma a Berlino acquista ulteriori iridescenze, riflessi che negli anni si sono fatti più o meno opachi, e che rifulgono in modo sempre diverso. All’epoca il film, pur generalmente apprezzato per la sua indubbia capacità intrattenitrice (è senza dubbio alcuno un action mozzafiato, che non ha perso un grammo della sua efficacia e che costringe lo spettatore a incollarvisi senza possibilità di distacco alcuno) venne visto come l’ennesimo capitolo di quella filmografia anti-hitleriana che si faceva valere anche nell’alveo dei cosiddetti b-movie.

Per quanto una lettura di questo tipo si basi su dati reali, e difficili da confutare, ancora una volta Tourneur dimostra di saper gestire con una maestria rara qualsiasi tipo di soggetto si trovi a maneggiare: nello specifico lo script poteva già contare sulla firma di Curt Siodmak, fratello minore di Robert al lavoro, dopo il riparo hollywoodiano, su titoli come Black Friday di Arthur Lubin, L’uomo lupo di George Waggner, oltre che già collaboratore di Tourneur per Ho camminato con uno zombi [1]. Una sceneggiatura che si destreggia tra i personaggi, ma che soprattutto riesce a inserire l’azione all’interno dello spazio in cui deve avvenire con sapienza. È un viaggio attraverso l’orrore, Il treno ferma a Berlino, un viaggio che non può in realtà avere una reale fine, perché è il viaggio nel cuore della geopolitica in continua evoluzione, della guerra che trae linfa dalla pace per ricrearsi in ogni occasione in forma nuova, ed esplodere con forza.
Da Parigi a Francoforte, da Francoforte a Berlino. Spazi distrutti, città solo in apparente stato di pace, popolazione che è maceria a sua volta, sgretolata come quei muri secolari buttati giù dalle bombe, dalle mitragliate, dai carri armati. In questo scenario, come fosse naturale farli sposare in un amplesso visivo, Tourneur inserisce gli elementi cardine del genere, tra soffiate notturne, inseguimenti, luoghi di dubbia frequentazione e via discorrendo. Un’opera che sporca il genere con la quotidianità, o anche il contrario se si preferisce, e che sceglie di mantenere una cauta fiducia non nelle istituzioni, ma nell’umanità. Nel gesto di raccogliere un biglietto da visita da terra. Tutti però nel finale de Il treno ferma a Berlino si dividono, per raggiungere ognuno il proprio quadrante. Solo un uomo cammina tra le colonne colpite dai bombardamenti. Non ha una gamba e si aiuta con le stampelle. La pace è guerra, cantavano i CCCP – Fedeli alla linea.

NOTE
1. Curt Siodmak, nato Kurt in Germania, prima di lasciare la terra natia in seguito all’avanzare del nazismo, farà in tempo a firmare insieme al fratello Robert e a Billy Wilder la sceneggiatura del miracoloso Menschen am Sonntag, diretto da Robert Siodmak insieme a Edgar G. Ulmer, prodotto da Ulmer con Seymour Nebenzal (produttore tra gli altri di Lulu – Il vaso di Pandora e Westfront 1918 di Georg Wilhelm Pabst, M, il mostro di Dusseldorf e Il testamento del dottor Mabuse di Fritz Lang, We Who Are Young che Dalton Trumbo scrisse per Harold S. Bucquet), fotografato da Eugen Schüfftan e da Fred Zinnemann. La meglio gioventù tedesca costretta nel giro di pochi anni alla fuga all’estero.
Info
Il trailer de Il treno si ferma a Berlino.
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