Mon garçon

Mon garçon

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Didascalico e appesantito da varie lungaggini narrative, Mon garçon dimostra la scarsa dimestichezza di Christian Carion con la dimensione del film di genere, risultandone in un film sbagliato praticamente sotto tutti i punti di vista. Alla Festa del Cinema di Roma.

Figli di un thriller minore

In un campeggio sulle prealpi francesi, il piccolo Mathys, di sette anni, scompare improvvisamente. Sua madre, Marie, richiama dal suo viaggio di lavoro l’ex marito Julien, che subito sospetta un rapimento; ma l’uomo, piuttosto che rivolgersi alla polizia, decide di iniziare una personale ricerca del figlio scomparso… [sinossi]

Un po’ thriller, un po’ dramma familiare, un po’ revenge movie che a un certo punto deraglia (non si sa quanto volutamente) dalle parti del franchise di Io vi troverò, Mon garçon rappresenta il ritorno di Christian Carion a un cinema ad ambientazione contemporanea. Dopo una serie di opere a sfondo storico, il regista immerge infatti lo spettatore e i suoi personaggi nei nevosi paesaggi delle prealpi francesi, narrando la vicenda di una famiglia separata che viene sconvolta dall’improvvisa scomparsa del figlio piccolo. Scomparsa, quest’ultima, che subito innesca il sospetto (presto tramutatosi in certezza) di un rapimento: ne seguirà l’immancabile odissea personale di un padre (col volto di uno stralunato Guillaume Canet) pronto a tutto pur di riavere indietro suo figlio. Il plot del film di Carion, tanto nelle premesse quanto nella tipologia di ambientazione, potrebbe far pensare a un incrocio tra il raggelato noir di provincia di Prisoners di Denis Villeneuve, e la già citata saga action prodotta da Luc Besson; ma il registro inizialmente scelto dal regista francese sembra piuttosto quello del ritratto familiare minimalista, dell’esplicitazione di una quiete fittizia nell’equilibrio di una coppia divorziata, che viene definitivamente messa in crisi da un evento drammatico.

Prima di imboccare con decisione la strada del thriller, il regista sembra voler delineare in modo esauriente (scivolando spesso, invero, nel didascalismo) le dinamiche familiari che hanno portato la famiglia del protagonista alla rottura, componendo per tutta la sua prima parte un ritratto più attento alle premesse che all’effettivo sviluppo dell’intreccio. Via libera, quindi, ai flashback sotto forma di filmati di famiglia che ritraggono il bambino scomparso, via libera ai confronti/scontri all’interno della coppia separata (lei ha il volto di una Mélanie Laurent decisamente sottoutilizzata), via libera alle tensioni sopite tra il protagonista e il nuovo compagno della donna, presto destinate ad esplodere. Più che porre le premesse per i successivi sviluppi del plot, la sceneggiatura sembra inizialmente indecisa sulla direzione da prendere, slabbrandosi in più punti in lungaggini di trama, senza tuttavia riuscire (e questo è un limite più grave) nel proposito di costruire uno sfondo credibile al dramma successivo. L’insistenza, in tutta la prima metà del film, sui flashback che raffigurano la coscienza di un padre assente, utilizzati in modo spesso ridondante e narrativamente gratuito, riesce a far risultare per larghi tratti pesante la fruizione di un film dal minutaggio decisamente ridotto (siamo sotto l’ora e mezza di durata).

Poco a suo agio con le dinamiche del thriller (e con le sue regole), Carion sembra preoccuparsi più di svolgere bene il compitino (vedi l’uso poco funzionale, essenzialmente da cartolina, dell’elemento scenografico), mancando nella costruzione di un efficace climax e disseminando il film di impennate emotive che spesso sconfinano involontariamente nel grottesco. Il primo confronto tra il protagonista e il compagno della sua ex moglie, preambolo per la montante ossessione che porterà il personaggio (e il plot intero) verso una direzione più chiara, si segnala proprio per la scarsa credibilità con cui è scritto e messo in scena. Involuto e privo di uno sviluppo chiaro e univoco, unicamente affidato alla modulazione espressiva di un Canet che non trova basi credibili su cui lavorare, il personaggio di Julien viene seguito in una poco credibile detection sullo sfondo di territori sempre più impervi, in cui le stesse esplosioni di violenza sono lasciate (un po’ ipocritamente) fuori campo. La sostanziale linearità della trama, priva di twist narrativi e giocata su una premessa (la follia generata da una ritrovata voglia di paternità) trasparente quanto esile, rende molto debole la tensione narrativa e il suo successivo scioglimento. Si giunge alla conclusione, seguita da un piano sequenza forse teso a ricercare una “circolarità” che il plot altrove non evoca nemmeno, domandandosi cosa il regista volesse (realmente) esprimere.

Esile e deludente quale film di genere, diretto in modo svogliato e appesantito da una costruzione narrativa meccanica quanto risaputa, Mon garçon fallisce anche nel suo tentativo di esplorare la genitorialità (evocata nel titolo) e le sue premesse: mettendo in scena, nel protagonista interpretato da Canet, una discesa nella follia che, decontestualizzata com’è, risulta davvero ardua da prendere sul serio. Un risultato che indica, in modo piuttosto evidente, una scarsa dimestichezza del regista col genere, traducendosi in un film sbagliato praticamente sotto tutti i punti di vista.

Info
La scheda di Mon garçon sul sito della Festa del Cinema di Roma
Il trailer di Mon garçon su Youtube.
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