Halloween – La notte delle streghe

Halloween – La notte delle streghe

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Tra le molte gemme recuperate sul grande schermo durante le giornate del Trieste Science+Fiction si è trovato il doveroso spazio anche per Halloween, il capostipite capolavoro della saga horror dedicata a Michael Myers diretto nel 1978 da John Carpenter, punto di svolta fondamentale del genere.

La morte arriva in soggettiva

Halloween è quella del 31 ottobre, vigilia d’Ognissanti. Nel 1963, nel villaggio di Haddonfield in Illinois, il piccolo Michael, a soli 6 anni, uccide la sorella Judith Myers. Ricoverato in clinica psichiatrica, 15 anni dopo, alla vigilia fatidica di Halloween, il mostro fugge per dirigersi verso la cittadina di origine. Conscio del pericolo, il dottor Loomis insegue Michael e mette in allarme lo sceriffo Brackett che, tuttavia, non gli dà troppo credito. La circostanza, infatti, è a favore del mostro assassino poiché le urla delle vittime o le richieste di aiuto vengono prese per scherzi di cattivo genere… [sinossi]

Halloween è Michael Myers, e Myers è figlio di Norman Bates e fratellino minore di Leatherface. Il primo è ancora rinchiuso nella sua stanza con gli uccelli impagliati, partecipe a un’altra generazione, in cui le turbe psicologiche hanno ancora una connotazione intima, privata, una biografia scrivibile e strutturabile. Norman Bates è il figlio di una madre promiscua e “crudele”, sprezzante; il figlio, castrato e costretto solo all’attività scopica, è l’esecutore di una continuità nell’omicidio che perpetua l’idea di avere ancora la madre a disposizione, viva, acidula e pronta a colpirlo nell’orgoglio. “Un figlio non può sostituire un amante”, è la sua amara conclusione. Ma può colpire. Uccidere. Sfregiare. Dileggiare il femminile e umiliarlo, ricacciarlo nella fredda umidità della tomba. Ma è ancora il 1960, J.F. Kennedy non è morto a Dallas, il Vietnam è una terra in cui si sono invischiati da poco, pochissimo, i militari statunitensi e che sembra ancora rientrare solo nelle sfere relative alla Guerra Fredda. The Texas Chain Saw Massacre, di cui Leatherface è il principale esecutore, arriverà solo quattordici anni più tardi, nel 1974. La psicologia già viene meno, e si passa dall’omicidio seriale rivissuto nella mente come la madeleine proustiana alla vera e propria mattanza. Leatherface non ha volto, non ha morale, non ha affetti – la famiglia è una condizione sociale astratta. Nel 1978 John Carpenter con la creazione di Michael Myers compie un passo ulteriore in avanti: il piccolo Michael al momento del suo primo omicidio (quello della sorella) ha appena 6 anni, ma ha una famiglia. Una famiglia borghese, per di più, non quella di redneck sottoproletari spettata in destino a Leatherface e neanche quella disfunzionale, con figura paterna assente, narrata a Marion Crane da Norman. Come Leatherface Michael si maschera per uccidere: non una forma di occultamento della personalità, ma lo specchio di una totale mancanza di reale connessione con il reale. Myers esiste solo perché costretto a utilizzare strumenti materiali, come i coltellacci da cucina, per portare a termine la sua prassi. Non l’omicidio come una delle belle arti, alla maniera di Thomas De Quincey (e come sarà, per esempio, per il Wes Craven di Scream), ma come semplice gesto quotidiano; mentre però Leatherface non fa che aggiungere carne umana a un lavoro, quello da macellaio, che già di suo prevede la macellazione, Michael non ha neanche questo amo a cui agganciare la logica. Non esiste motivo nel gesto folle di Michael; assassinare la sorella mentre, ancora nuda, si riprende dall’amplesso con il suo fidanzato, non è un modo di esorcizzare la propria impotenza sessuale, come per Norman, perché il piccolo è ancora ben lontanto dal raggiungere la pubertà. Carpenter, con un atto rivoluzionario, sottrae dal suo pluriomicida qualsiasi possibilità di raziocinio: Halloween non lascia scampo ai suoi spettatori, non permette loro di trovare criterio reale in quella pazza notte che vede la giovane Laurie Strode impegnata a fare la babysitter mentre le sue amiche cadono una dopo l’altra sotto i colpi mortali dell’uomo nero.

È un vero e proprio boogeyman, Michael Myers, un’entità corporale ma del tutto estranea alle logiche fisiche dell’umano. Non prova sentimenti, non prova dolore, non muore neanche quando il sempre meno accademico dottor Loomis gli rovescia addosso un intero caricatore della sua rivoltella. Non muore, Michael Myers. È un übermensch, un superuomo che si eleva al di sopra delle miserie umane. Niente sentimentalismi, solo un assassinio dopo l’altro, di persone che non rappresentano nulla per lui, con le quali non ha alcun legame. Ma Carpenter non manda al macello la (non molto) meglio gioventù come fece Tobe Hooper, e non prova neanche troppa simpatia per questi adolescenti borghesi già pronti alla scalata della piramide sociale nello yuppismo reaganiano; non si identifica con Myers, ma gioca con lo spettatore esattamente come il giovane uomo fa con le sue vittime. Anche lui si traveste da spettro, anche lui si nasconde nell’ombra con una maschera, anche lui è pronto al suo dolcetto-scherzetto micidiale. Mentre Hitchcock sfruttava la soggettiva per far avvicinare con maggior pathos Lila, la sorella di Marion, alla magione Bates, alla ricerca di una vecchia già mummificata, per Carpenter la soggettiva significa sposare in tutto e per tutto il punto di vista di un assassino. È lo spettatore, e prima di lui il regista, a macellare a colpi di coltello la giovane sorella di Myers (Sandy Johnson, playmate del mese nel giugno del 1974), ad aggirarsi per la casa, a mettere a soqquadro un ordine solo in apparenza impossibile al fallimento.
Dopotutto l’unica vera essenza di Myers, a parte il momento in cui si accanisce contro la vittima di turno, riguarda la sua possibilità di spostarsi, di muoversi nello spazio. Come ogni creatura dell’incubo, il villain di Halloween ha la capacità di trovarsi ovunque e in qualsiasi momento. Può apparire alle spalle di tutti i protagonisti, senza fare un rumore, senza che nessuno si accorga della sua presenza. È un ectoplasma e allo stesso tempo ha una corporeità imponente, per quanto all’apparenza intangibile. Non gioca con i fantasmi della mente, Carpenter, e allo stesso tempo non ha alcuna intenzione di attribuire al suo protagonista occulto – il vero personaggio in scena è ovviamente la casta e diligente Laurie – vizi e virtù dell’umano. Myers non ha punti deboli, non possiede neanche il desiderio lubrico che indebolisce in maniera temporanea un vero e proprio babau come Freddie Kruger in Nightmare on Elm Street di Wes Craven, altro regista che molto dovrà a Halloween e al suo rovesciamento dell’ordine nella prammatica dell’orrore.

Proprio nella concezione anti-psichiatrica e ai limiti del sovrannaturale del personaggio di Myers Halloween dichiara in forma netta la sua appartenenza all’orrore inteso in senso più misterico, cosmogonico, eterno. L’uomo con la maschera bianca e inespressiva sul volto può tornare ciclicamente sugli schermi (dieci volte in trentuno anni tra il 1978 e il 2009, comprese le due riletture spurie e autoriali di Rob Zombie, e nell’ottobre del 2018 per festeggiare il quarantennale Blumhouse e Miramax porteranno nei cinema un nuovo Halloween diretto da David Gordon Green e prodotto da Carpenter, che dovrebbe porsi come diretto sequel dell’originale glissando su tutti gli altri titoli partoriti nel corso dei decenni) perché la sua morte è impensabile, impossibile, sempre eternamente procrastinata a data da destinarsi. Solo Laurie può sopravvivere alla sua metronomica operazione omicida, la ragazza in grado di rivolgere il simbolo fallico con cui l’uomo la sta minacciando (il coltello) contro lo stesso aggressore, ferendolo ripetutamente e resistendo alla violenza. I suoi coetanei, assopiti nello stordimento dell’abitudine della classe media, non saranno in grado di fare altrettanto. Potranno riuscirvi i bambini, gli unici davvero a credere all’esistenza dell’Uomo Nero, gli unici ancora ammaliati dal potere del cinema, gli unici che leggono nella festa di Halloween qualcosa di più radicale di una semplice evasione dalla norma.
È interessante notare come lo sguardo progressista di Carpenter, che cala il film in una sorta di amplesso mai privo di eleganza tra le sulfuree atmosfere di Val Lewton e la brutalità intesa anche come esercizio tecnico (il montaggio, la fotografia, i tagli dell’inquadratura) derivata da Hitchcock, sarà sistematizzato all’interno del genere – lo slasher movie svilupperà gran parte delle sue regole proprio prendendo a esempio il testo filmico di Halloween – ma verrà ribaltato, trasformandolo in un occhio moralizzatore, puritano, reazionario. La dimostrazione arriverà appena un paio di anni più tardi con Venerdì 13 di Sean S. Cunningham. Ma ci si starà già inoculando negli anni Ottanta, e questa è un’altra storia…

Info
Il trailer di Halloween – La notte delle streghe.
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