Le due sorelle

Le due sorelle

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Ambiguità, doppiezza dell’anima e doppiezza dello sguardo. Traendo spunto da reminiscenze hitchcockiane, Le due sorelle di Brian De Palma interroga il cinema e i suoi strumenti consolidati, riflette su di essi, alle soglie di una moderna coscienza della “fine del reale”. Al TFF per la retrospettiva totale dedicata all’autore.

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Dopo aver partecipato a una candid camera, la modella Danielle invita a cena Philip, la vittima dello scherzo televisivo al quale lei stessa ha contribuito. L’incontro finisce male; Danielle ha infatti una gemella siamese, Dominique, dalla quale è stata separata circa un anno prima a seguito di un’operazione. Dominique è violenta e aggressiva, e uccide Philip. Dal palazzo di fronte, la giornalista Grace Collier ha visto tutto e avverte la polizia. Ma nel frattempo l’ex-marito di Danielle, Emil, è già intervenuto cancellando ogni traccia dell’omicidio e nascondendo il cadavere nel divano del salotto. Così Grace non viene creduta da nessuno e si mette a indagare per conto proprio, coadiuvata da un investigatore privato. La verità sarà ancora più sconvolgente… [sinossi]

Subito nell’esordio, Le due sorelle (1973) di Brian De Palma si apre in ambiente di ambiguità. Con uno degli stratagemmi visivi per i quali successivamente De Palma diventerà largamente riconoscibile, quel che vediamo nell’incipit viene rivelato poco dopo come immagine di finzione (e visto che siamo in ambiente-cinema, già di per sé finzionale, di “doppia finzione”). Scopriamo infatti che la prima sequenza fa parte di una candid camera, inserita all’interno di uno show televisivo che fonda quindi se stesso sull’illusione della tv-verità (l’idea sottesa al funzionamento estetico delle riprese in candid). Di più: la candid camera vede protagonista una modella che finge di essere cieca, con ulteriore giro di vite sul tema del vedere.

Tradizionalmente accomunato al cinema di Alfred Hitchcock, tanto da sembrare talvolta vittima di un luogo comune critico più che di una vera analisi, mai come stavolta in effetti Brian De Palma dichiara un’ispirazione e una tendenza citazionistica nei confronti del maestro britannico, a cominciare proprio da tale riflessione sulla doppiezza (triplezza, quadruplezza, “enneplezza”…) del vedere e dello sguardo. In primo luogo Le due sorelle ricava dirette suggestioni dal mondo di Hitchcock almeno rispetto a due dei suoi film più ricordati: Psyco (1960) e La finestra sul cortile (1954), che non a caso si fondano su due distinte tipologie di doppiezza, quella dell’anima e quella dell’occhio umano.
Sulle orme di un tòpos che più classico non si può in ambito di giallo-thriller (il testimone di un omicidio che non viene creduto), il film di De Palma spalanca un universo di sguardi prismatici, in cui la verità è continuamente rimossa, rinviata, messa in discussione, così come gli strumenti della sua cattura. Se già il cinema di Hitchcock si mostra come un “oggetto puramente cinematografico” spesso sulla soglia (e oltre) di una riflessione modernistica sulla moltiplicazione del vedere e il conseguente declino dell’uomo, deprivato del suo dominio sul mondo tramite la lettura di realtà, De Palma rinnova tale linea interpretativa sposandola al suo tempo, a un panorama mediale in profonda trasformazione e all’avvento di nuove tecnologie.

Agli inizi degli anni Settanta la televisione è alle soglie della sua definitiva affermazione come presenza costante, e occhio duplice (è vista da tutti, e “vede” tutti, in giro per le città, e pure nelle case, tutte illuminate dalla sua luce bianca). Probabilmente si tratta di un macrofenomeno, di dimensioni mondiali, che viene a confermare una crescente duplicazione del vedere, dal cinema in poi. Adesso il doppio sta in salotto, o in cucina, cammina al nostro fianco. A breve arriverà la videoregistrazione, più avanti il digitale. Non è quindi un caso che De Palma prenda le mosse da quel trucchetto di vero/falso televisivo nell’incipit; da parte sua è una prima palese affermazione di coscienza mediatica, la messa in quadro di una frattura, o di una superfetazione del reale, che ha generato un suo doppio in via definitiva. Un doppio in cui la realtà ha tratti più marcati, più sintetici, pertinentizzati (le risate preconfezionate, gli applausi a comando…), in cui tutto appare “più che vero” proporzionalmente alla falsità della sua preordinazione.
Da quella prima sequenza, Le due sorelle srotola una riflessione così concepita sia sul piano della materia narrata sia, soprattutto, nei mezzi espressivi adottati. Proliferano finestre, tendine, sguardi dentro a cannocchiali, e l’uso prettamente depalmiano dello split-screen, qui reso fortemente funzionale alla riflessione generale del film poiché finalizzato allo sdoppiamento effettivo e simultaneo di una stessa inquadratura da due punti di vista diversi, con giochetti visivi che fanno brillare gli occhi ai cinefili (William Finley, procedendo in un corridoio, entra ed esce da una sezione dello split-screen all’altra, a seconda della sua collocazione al di là o al di qua di un angolo tra due pareti; ancor più spericolato, d’altronde, il campo-controcampo risolto con la simultaneità dei due punti di vista separati nelle due aree di schermo).
Ed è quantomeno singolare che l’intervento dello split-screen avvenga nell’esatto momento in cui si palesa in scena il doppio di Danielle, l’aggressiva sorella Dominique. Sta proprio lì, nella prima concretizzazione visiva di tale duplice anima, l’origine del doppio punto di vista sancito dall’apparire dello split-screen. L’essere umano è scisso, la realtà oggetto della sua interpretazione pure si scinde. Si scinde lo spazio, ma anche l’univocità del tempo del frame, strumento che nel linguaggio classico si profila come mezzo di asserzione di “verità spazio-temporale” sullo schermo.

Una frantumazione totale, del cinema e dei suoi strumenti, delle certezze fruitive di chi vede, che trova la sua incarnazione nel racconto di un omicidio visto alla finestra, ma smentito da tutti, pure dalla polizia. E che, soprattutto, si riallaccia a una scissione originaria, quella di Danielle e Dominique, portatrici di due nette e complementari nature: la bontà e l’aggressività, in altri termini potremmo dire la legge e l’istinto. Nell’infinita moltiplicazione della verità, a un passo dalla disintegrazione operata trent’anni dopo dall’avvento del digitale, pure la natura umana sembra scindersi e polarizzarsi nei suoi estremi. Psyco riletto, insomma, alla luce di una scissione non individuale e “da manuale”, ma più massiccia e duratura, che interroga direttamente gli strumenti conoscitivi dell’essere umano. Forse, dal digitale alla schizofrenia non vi è che un passo, se per schizofrenia si può intendere anche il semplice congedo dall’uomo affidato alle certezze dell’univocità del reale.

A salvare l’uomo e l’artista da tale deriva non resta che la consapevolezza, che in quanto tale può tramutarsi in gioco autoreferenziale e cinico umorismo. Anche nel cinema di Hitchcock è rilevabile un costante risolino beffardo e crudele, ma in Le due sorelle emerge invece un’evidente ironia che rimanda prettamente al cinema stesso e alle sue forme consolidate e pregresse. Non certo una parodia, né una rilettura in chiave demenziale, bensì l’ironia insita in qualsiasi presa di coscienza riguardo agli strumenti espressivi di una determinata arte. Dove c’è coscienza, non può che esserci anche ironia. Nella messa in evidenza di quegli stessi strumenti, nel ripercorrere canoni in modo così rigido da sfondare nell’assurdo (se riassunta da inizio a fine, la vicenda di Le due sorelle sfida la logica di qualsiasi credibile sviluppo narrativo), nell’ironia implicita all’immagine stessa che rimanda infinitamente a se stessa, affermando nella negazione (o negando nell’affermazione), risiede la profonda modernità del cinema di De Palma, che in Le due sorelle allestisce un gioco a tutt’oggi divertente e sagace. Che evoca doppiezze, nella tragedia immortale (poiché ormai impossibile) dell’unicità.

Info
La scheda di Le due sorelle sul sito del Torino Film Festival.
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