Final Portrait

Final Portrait

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Ritorno alla regia per Stanley Tucci con Final Portrait, dedicato alla figura dell’artista svizzero Alberto Giacometti. Piccolo film per un tema enorme, operazione riuscita solo a metà. Protagonisti Geoffrey Rush e Armie Hammer. Al TFF per Festa Mobile.

L’Idea è infinita

Tratto da un libro autobiografico di James Lord. Metà anni Sessanta. L’artista svizzero Alberto Giacometti vive a Parigi con moglie e fratello, e chiede all’amico James Lord di posare per un ritratto. Lord accetta con entusiasmo, ma presto l’impresa si rivela ardua. Giacometti continua infatti per settimane a distruggere abbozzi, mai del tutto convinto e soddisfatto del proprio operato, mentre Lord rinvia di giorno in giorno la partenza per New York… [sinossi]

Il piccolo film, il tema grande. Sta in questa dicotomia espressiva il maggior interesse del ritorno alla regia di Stanley Tucci; il suo Final Portrait passa al Torino Film Festival nella sezione Festa Mobile, carico della sua impegnativa sfida. Si avverte grande amore e curiosità da parte dell’autore nei confronti della figura di Alberto Giacometti, scultore e pittore svizzero che concluse i suoi giorni sul finire degli anni Sessanta dopo aver soggiornato a lungo a Parigi.
Amore per una precisa storia individuale e per specifici personaggi, ma calati con ogni evidenza in un contesto che vuol superare il mero dato storico-biografico per aprire riflessioni nientemenoché sull’impulso artistico e il suo tortuoso processo verso la realizzazione. Certo, il caso di Alberto Giacometti è in tal senso più emblematico di altri, poiché l’artista è ben ricordato per la sua tormentosa incapacità di concludere le proprie opere, congedarle e licenziarle al pubblico.
Dedito costantemente alla revisione dei suoi abbozzi che finivano di frequente distrutti per ricominciare daccapo, Giacometti si profila come un significativo modello del processo creativo, mai saziato, mai acquietato dal compiersi dell’opera d’arte.

Si tratta quindi di una vicenda biografica precisa e specifica, che tuttavia nella prospettiva di Final Portrait porta semplicemente alle estreme conseguenze un tormento pressoché universale in ambito di creazione artistica, in tutte le sue forme. Di più: Stanley Tucci non indaga soltanto i processi del compiersi dell’opera d’arte, ma evoca anche il rapporto tra artista e modello, qui incarnato da una figura storica, James Lord, che tuttavia può essere interpretato a sua volta come figurazione di un’archetipica immagine mentale sottesa alla composizione di qualsiasi opera. Prima di realizzare un’opera d’arte, in pratica, ogni artista ha un’immagine mentale di essa, magari ricavata da un preciso e unico modello o dalla confluenza di più modelli, anche soltanto immaginati e senza diretti referenti nella realtà. Immagine, ovviamente, in continua evoluzione, per cui magari, cercandola, la si perde per sempre. Del resto, il prodotto concreto è pur sempre il risultato di una confluenza, dal momento che dall’idea alla traduzione in oggetto d’arte intervengono i materiali realizzativi e, soprattutto, il filtro della personalità dell’autore.

Materia corposissima, dunque, che Stanley Tucci cerca di incastonare in un piccolo film, pressoché totalmente racchiuso nel rapporto tra Giacometti e il suo amico James Lord, al quale Giacometti chiese di posare per un ritratto. Lord accettò con entusiasmo, ma presto l’entusiasmo si tradusse prima in stanchezza, poi in disagio. Giacometti compose e distrusse più volte il ritratto, procedendo con fatica e lentezza nell’esecuzione. Finché James Lord, con la complicità del fratello di Giacometti, costrinse in qualche modo l’artista a licenziare il ritratto.
Il film grosso modo sta tutto qui, radicato in una situazione narrativa volutamente statica e ripetitiva, poiché, raccontando di un’opera che non si compie, non potrebbe essere altrimenti. Tucci ha il merito di inserire ulteriori contributi sull’idea dell’arte professata da Giacometti senza che essi assumano quasi mai le sembianze della lezioncina didascalica canalizzata pretestuosamente nei dialoghi.
Accoppiando due attori di storia, formazione e generazione totalmente opposti (Geoffrey Rush e Armie Hammer), Final Portrait li rende molto credibili e pure commoventi, in quel rispettoso e reciproco affetto ben percepibile nel loro continuo confronto. Tuttavia, alle prese con un tema di tale portata, Tucci sembra mirare ad altezze inarrivabili che il suo film soddisfa solo in parte.

Rifiutando la costruzione di una vera e propria trama, spesso Final Portrait sembra perdersi dietro bozzetti d’epoca poiché, forse, il tema centrale è davvero troppo enorme, e allora conviene scartare ogni tanto verso la parentesi faceta e compiacente. Ne sono prova le altre figure umane narrate, soprattutto i due personaggi femminili della moglie di Giacometti e della modella Caroline, giuliva prostituta parigina che posò lungamente per l’artista. Meglio intagliato è invece il ruolo laterale e significativo del fratello di Giacometti, impersonato dall’ottimo Tony Shalhoub, sodale di Stanley Tucci fin dal suo esordio alla regia con Big Night (1996).
In ogni caso, il contorno umano che si dispiega a fianco della figura dell’artista sembra animato dal desiderio di dare conto di ulteriori informazioni biografiche, senza però che esse si compongano mai veramente col braccio principale del film. Un tentativo di allargamento del quadro, insomma, che esca qua e là dalle quattro pareti dell’atelier di Giacometti dove per tre quarti il film è ambientato, tra una posa e l’altra. Dietro all’inesausta perfettibilità dell’opera perseguita da Giacometti, il film di Tucci allude con sapienza e pudore anche a fantasmi ossessivi, conducendo il discorso sull’arte verso la malattia dell’anima. Ma nessun facile maledettismo, nessun furore artistico che non trova requie.
Final Portrait ha il merito di dare forma concreta e quotidiana al lavoro dell’artista intorno all’idea. Peccato che la riflessione non si mantenga viva e stimolante da inizio a fine, e soprattutto che il film non riesca poi fino in fondo a trasmettere quel senso d’angoscia davanti all’inafferrabilità dell’oggetto artistico. Sul lungo passo il fiato resta un po’ corto rispetto alla sfida che Stanley Tucci si è voluto accollare. E spesso prevale il bozzetto d’ambiente e caratteri, la via più facile, del resto, per uscire dall’impasse.

Info
La scheda di Final Portrait sul sito del Torino Film Festival.
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