A Taxi Driver

A Taxi Driver

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Campione d’incassi e scelto dalla Corea del Sud come rappresentante per la (mancata) corsa agli Oscar, A Taxi Driver di Jang Hun declina tutti i meccanismi narrativi e le scorciatoie retoriche dei blockbuster adattandoli a uno degli eventi più tragici e oscuri della storia sudcoreana. Risate e commedia, lacrime e sangue trovano nel sempre bravissimo Song Kang-ho un interprete perfetto. Tra i titoli selezionati dal Torino Film Festival 2017.

Non sta succedendo niente

Corea del Sud, 1980. Un cronista occidentale e il tassista che lo accompagna arrivano a Gwangju: qui è in corso una rivolta contro il governo guidata dagli studenti. A spingerli è il bisogno di libertà. Un momento epocale, a cui i due guardano con occhi diversi… [sinossi]
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E se nei vostri quartieri
tutto è rimasto come ieri,
senza le barricate
senza feriti, senza granate,
se avete preso per buone
le “verità” della televisione
anche se allora vi siete assolti
siete lo stesso coinvolti.
Canzone del maggio – Fabrizio De André

Mancano alcuni fotogrammi al blockbuster A Taxi Driver. Il primo è un fermo immagine. Un terribile fermo immagine, tra le chiavi di volta del cinema sudcoreano contemporaneo: il primo piano di Sol Kyung-gu in Peppermint Candy (2000) di Lee Chang-dong, a un passo dalla (sua) fine. Il secondo tassello mancante è più recente, dobbiamo tornare indietro di pochi anni: è il 2013 e The Attorney di Yang Woo-seok riesce a riassumere con un fugace campo/controcampo la perdita dell’innocenza e la presa di coscienza del suo controverso protagonista, prima avvocato arrivista e poi paladino dei perseguitati politici. A Yang basta poco: un agente in minacciosa tenuta antisommossa e il volto pacioso di Song Kang-ho che muta espressione. Niente sarà più come prima.
A parte il tema fortemente politico, Peppermint Candy e The Attorney sono due pellicole assai distanti tra loro, marcate dall’autorialità di Lee e dal respiro da grande pubblico di Yang. Si direbbero quasi agli antipodi, se non ci fosse proprio A Taxi Driver a spostare ancor più in là, verso le solitamente placide acque dei blockbuster fracassoni, il cinema sudcoreano d’impegno civile. Perché è anche fracassone A Taxi Driver, con quel susseguirsi di possibili finali, con le sottolineature didascaliche, soprattutto con la lunga sequenza della fuga (e inseguimento) in macchina. Anzi, in taxi. Tutti i taxi. Fracassone, didascalico, ricattatorio, con lacrime e risate soppesate a tavolino, ecco cos’è il film di Jang. È ridondante, un trappolone, uno scalatore di box office.

Sì, manca la crudele capacità di sintesi di Lee. E mancano le sfumature di Yang. Altrove molto più misurato (il film di guerra The Front Line, 2011), Jang sembra voler erigere attorno al buco nero di Gwangju una sorta di cordone protettivo, didascalico fino all’eccesso, percorso senza soluzione di continuità da strizzatine d’occhio, gag, sottolineature di ogni tipo. Sia all’andata sia al ritorno. Trovata la chiave d’accesso narrativa a Gwangju, Jang spreme fino all’ultima goccia il taxi verde, il physique du rôle di Song, le dinamiche da buddy movie e da road movie. Tutto, troppo, tanto da sembrare completamente fuori asse.
Eppure…
Dilatando all’eccesso la contrapposizione tra inconsapevolezza e tragica presa di coscienza, meccanismo che già aveva funzionato a dovere in The Attorney, Jang prende idealmente per mano tutti gli spettatori, in primis quelli sudcoreani, ma senza dimenticare il pubblico internazionale. Presi per mano, coccolati, mai lasciati in balia della storia, gli spettatori si ritrovano a un certo punto in mezzo all’orrore, alla Storia. All’inferno. Al buco nero. Uomini, donne, anziani, ragazzi abbattuti uno dietro l’altro; corpi seminudi ammassati sui camion; squadre speciali che frantumano volti e ossa; cecchini che eseguono gli ordini, a ripetizione, senza sosta. Cadaveri sopra cadaveri. 18 maggio 1980. Gwangju.

Il buco nero non è una parentesi tra due porzioni di buddy movie o road movie o come vogliamo chiamarlo. Il buco nero è il punto d’arrivo e di ripartenza. È tutto. È il senso, l’obiettivo e la tragica forza di A Taxi Driver. È nella macrosequenza del massacro di Gwangju che rintracciamo l’oculatezza, la misura e il filo conduttore del cinema di Jang – dopo l’opera prima Rough Cut, puramente spettacolare, Jang mette in scena questioni storico-politiche coi successivi The Secret Reunion e The Front Line.
Il buco nero è il non-rimosso della Storia sudcoreana. Ci erano andati vicini, ma a Seoul e dintorni hanno iniziato a correre, a crescere a dismisura, a ritrovare la libertà perduta. Crollata la dittatura, molti angoli hanno rivisto la luce. È anche il non-rimosso del cinema sudcoreano, capace di mettere in scena, ripercorrere, analizzare e metabolizzare eventi e periodi storici che altre cinematografie spazzerebbero sotto il tappeto. A Taxi Driver è una cartina tornasole: un po’ per la forza dell’industria cinematografica, un po’ per la solidità della democrazia. Ed è anche un po’ la nostra cartina tornasole, che guardando al film di Jang non possiamo non pensare a tutte le difficoltà incontrate da Diaz – Don’t Clean Up This Blood di Daniele Vicari.

La cornice narrativa, la componente biografica più o meno romanzata, i finali che non finiscono mai, le lacrime (ri)strappate a forza e le risate cercate con insistenza sono il nostro taxi verde e ci portano proprio lì, davanti alla morte, alla dittatura, ai militari che sparano a civili e concittadini, ai tentativi di insabbiamento. L’avevano costruito il loro cordone protettivo, azzerando contatti e informazioni. Non sta succedendo niente. E invece è successo: 18 maggio 1980. Gwangju. Il cinema è un taxi verde.

Info
Il trailer originale di A Taxi Driver.
La scheda di A Taxi Driver sul sito del TFF2017.
La scheda di A Taxi Driver sul sito del KoFiC.
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