Un’estate d’amore

Un’estate d’amore

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Tra i lavori giovanili di Ingmar Bergman Un’estate d’amore è uno di quelli in cui con maggior forza sembrano emergere i tratti distintivi della poetica del regista, dalla metafora dell’estate come istante di giovinezza fino al concetto della perdita della fede, e dunque anche dell’amore. Al Palazzo delle Esposizioni nella rassegna Bergman 100 organizzata da La farfalla sul mirino e CSC – Cineteca Nazionale.

Il diario di Henrik

La ballerina Marie riceve un plico che contiene il diario di Henrik, un giovane che ha amato durante un’estate di tredici anni prima e che era morto in modo prematuro per un incidente. Durante una giornata in cui non ha prove di balletto, Marie, senza dire nulla a David, il fidanzato, si reca allo chalet sul mare dove aveva vissuto quei giorni d’amore ed è presa da nostalgici ricordi… [sinossi]

Un’estate d’amore è, insieme al di poco seguente Monica e il desiderio, un’opera spartiacque all’interno della stratificata filmografia di Ingmar Bergman. È tale da un punto di vista poetico, espressivo, perfino tecnico. Lo stesso Bergman in una celebre intervista rilasciata a Jörn Donner affermerà: «Fu il primo film in cui cominciai a sentirmi veramente in grado di esprimermi. Era già parecchio che dirigevo film. A quell’epoca ero quel che si dice a digiuno di preparazione tecnica; anzi, dal lato tecnico ero preoccupato, incerto e pasticcione. Però c’è una cosa da tenere presente: a quei tempi la tecnica era molto più complicata di oggi». In effetti rivedere e riscoprire le opere giovanili di Bergman permette di rapportarsi con un apprendistato continuo, un percorso di riconoscimento di limiti e orizzonti, un viaggio che ha già chiari alcuni obiettivi da raggiungere. Al momento della sua presentazione fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia Un’estate d’amore venne accolto con un certo entusiasmo, perfettamente comprensibile anche al di là del mero valore artistico del film: Bergman, come farà un paio di anni più tardi Harriet Andersson, sembra fissare in camera gli spettatori, conducendoli con una nettezza invidiabile in un percorso emotivo e quasi pre-psicologico. Quello studio sulla psicologia che diventerà primo tassello di una ricostruzione/decostruzione del potere emozionale dell’uomo e del suo diritto al desiderio e all’appagamento (o meno) dello stesso, è ancora un progetto in fieri. In Un’estate d’amore si parte da pochi elementi chiari e impossibili da confondere, e Bergman li mostra senza reticenze nello spazio di pochi minuti: la campagna, il cinguettio degli uccelli, i fili d’erba mossi dal vento, un fischiare sommesso, lo scorrere placido e irruento allo stesso tempo dell’acqua, qualche scoglio e ancora il verde dell’erba. Un idillio rurale, fuori da qualsiasi contesto urbano, su cui scorrono lenti i titoli di testa. Non c’è fretta per Bergman, non c’è la volontà – come sarà per la protagonista Marie – di uscire da quella memoria campestre, da quell’egloga muta: per riemergere sarà necessario scontrarsi con un’inquadratura di senso quasi opposto, la ripresa espressionista di un campanile, con le nubi bianche che si addensano sulla nera guglia. È in questo stacco di montaggio, in questa breve e quasi impercettibile apertura che Un’estate d’amore, decimo lungometraggio per il cinema di Bergman, dimostra la maturità del suo autore, all’epoca delle riprese (svoltesi tra il 3 aprile e il 18 giugno del 1950) neanche trentaduenne. C’è una dialettica forte, in questo mélo dalle tinte cupe ma non privo di uno spiraglio di luce, ed è la stessa che avvince la sua protagonista, schiacciata dal peso della memoria ma costretta dalla sua stessa arte – è prima ballerina – a muoversi leggiadra, fuori dal comune senso della gravità.

La storia, che si articola facendo ricorso allo stratagemma del flashback, racconta della ballerina Marie, cui un giorno dopo le prove in teatro viene recapitato un diario. Aprendolo e leggendolo Marie si ritrova trascinata nella dolorosa memoria del primo amore, un ragazzo di nome Henrik che dopo averla ammirata in teatro si decise ad avvicinarla durante un viaggio sul battello in direzione della località di mare nella quale entrambi avevano casa. La memoria, l’amore giovanile, il viaggio per mare… I punti che torneranno con forza in Monica e il desiderio sono già tutti presenti, anche se il film sceglie un approccio diverso e al fragore dirompente del moderno preferisce l’ombra cullante e oscura del classicismo. È classica dopotutto anche la formazione di Marie, figura bianca tra figure bianche a piroettare in uno spazio scenico che non è mai mostrato nella sua interezza, con una macchina da presa che si concentra sul proscenio, lasciando nel fuori campo gli applausi del pubblico. Il teorema della maschera come unico elemento plausibile per affrontare il reale è già tutto nel viso solo in apparenza sereno di Marie; la sua è una duplice finzione, quella in scena e quella nel mondo di tutti i giorni, in quella Stoccolma tonitruante e così distante (eppure così geograficamente vicina) alla Dalarö in cui esplose tredici anni prima la passione tra la giovane e il suo innamorato, tra un giro in barca e un tuffo. Il mare come distacco ulteriore dalla realtà, come elemento liquido eppure materico in grado di dividere il mondo del desiderio da quello esistente. Sarà così anche per la fuga d’amore di Monica e Henry, e sarà così in fin dei conti anche per il buen retiro di Bergman sull’isola di Fårö.
Marie, che del perduto amore ritrova sulle pagine del diario la grazia di un sentimento non ancora corrotto dalle insidie della vita – e da tristi figuri come il contorto zio Erland, ossessivo e possessivo nei confronti della nipote, interpretato da un sublime Georg Funkquist, al lavoro con Bergman anche ne L’occhio del diavolo e A proposito di tutte queste… Signore –, è a sua volta dispersa tra il sogno e la veglia, mossa dal desiderio del ritorno impossibile e per questo ancor più doloroso a quei “giorni come perle, splendenti, montate su fili dorati, pieni di giochi e carezze. Notti costellate da sogni a occhi aperti, dove non c’era tempo per dormire”.

Per quanto sia scritto e diretto da un giovane uomo, e nonostante un finale che in qualche modo concede a Marie il diritto di ripartire, prendere di nuovo le redini della propria esistenza, Un’estate d’amore è già un’amara riflessione sulla caducità della vita, sull’effimera consistenza del sentimento amoroso, destinato a vivere un’estate e non di più per poi poter essere solo rimpianto. È un Bergman che mette già in scena una partita a scacchi in cui uno dei due contendenti è vestito di nero – in quanto prete – e l’altro è una malata terminale di cancro, a pochi passi dunque dalla morte; senza elevare questo passaggio a discorso filosofico sull’umano digradare, come sarà ovviamente invece per la ben più celebre disfida ne Il settimo sigillo, il regista puntella comunque un racconto che contrappone al naturale sbocciare dei corpi in fiore di Marie e Henrik il tetro approssimarsi della tragedia. Un altro schema dialettico, come quello accennato nell’incipit/ouverture.
Se in Monica e il desiderio Bergman squadernerà la logica di un cinema volto alle proprie spalle costringendolo a imparare a guardare in macchina, e a svelarsi di fronte all’occhio nudo e impassibile della camera, in Un’estate d’amore il cinema è ancora un gioco, come l’amore giovanile: lo dimostra quel breve inserto animato, lavorato da Rune Andréasson, destinato a diventare celebre in patria come creatore dell’orsetto Bamse, eroe della televisione svedese e sorta di strano punto d’incrocio tra Asterix e Popeye.

A sorprende ancora oggi, a quasi settant’anni dalla realizzazione del film, è la semplicità fuori dall’ordinario con cui Bergman, senza ricorrere a naturalismi esasperati, riesce a raccontare la vita, il suo svolgersi contemporaneamente elegiaco e mostruoso, la fragilità di un’umanità esposta – come l’erba vista sui titoli di testa – al frangersi e all’ululare dei venti. Mirabile, da questo punto di vista, la sequenza che porta alla morte di Henrik, provocata da una banale caduta sugli scogli nel tentativo di tuffarsi in mare: dapprima Bergman segue senza stacchi i due, abbandonando Henrik un attimo prima del tuffo per panoramicare rapidamente su Marie e mostrare attraverso la sua reazione il tragico incidente. Quindi stacca su un totale in campo lungo, che parte dagli scogli per perdersi nell’orizzonte marino; Henrik emerge dalle acque e si muove verso la macchina da presa, fino a perdere i sensi a ridosso di essa. In un nuovo totale, che vede ora Marie sorreggere lo stordito fidanzato per raggiungere l’ospedale – dove il ragazzo morirà – Bergman alza lo sguardo verso il cielo, trovandolo di nuovo minaccioso, pieno di nubi d’inchiostro. L’alto, il cielo, il Dio che si cela e verso il quale non si può che imparare a nutrire sfiducia, è un altro dei temi centrali non solo della poetica di Bergman, ma della sua stessa estetica.
Nel finale del film, quando il flashback si è mai esaurito una volta per tutte, Marie può finalmente struccarsi di fronte allo specchio, in un gesto che appare di nuovo duplice nella sua spinta di liberazione: liberazione dal peso del passato ma anche dalla propria condizione di attrice del presente, finalmente in grado di aprirsi al mondo senza sovrastrutture, senza finzioni esibite. In grado finalmente di amare di nuovo, per quanto forse – chissà – senza la stessa ilare complicità totalizzante. Eppure proprio nel pre-finale, con quell’aggraziato raddoppiarsi del senso della vita e del teatro della vita – Marie si mette sulle punte per baciare il giornalista che ora frequenta ma anche per riprendere il proprio posto in scena per l’atto conclusivo – Bergman sembra problematizzare una volta di più quello che sarà uno dei punti centrali della sua ricerca filosofica attraverso le immagini. Si può davvero abbandonare il teatro in cui ci si sente costretti a esibirsi? E se si potesse, cosa accadrebbe?

Info
Il trailer di Un’estate d’amore.
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