Intervista a Lav Diaz
Ancora la memoria di un cataclisma, ancora un lamento per un paese martoriato come le Filippine. In Season of the Devil, Lav Diaz torna a occuparsi dell’epoca della dittatura di Marcos, come già in altri suoi film. Di nuovo c’è la forma da musical che però Diaz reinterpreta con canzoni a cappella, senza musica. Abbiamo incontrato Lav Diaz durante la Berlinale, dove il film è stato presentato.
La storia si ripete, è l’assunto di tanti tuoi film, tra cui Season of the Devil, dopo Marcos, Duterte.
Lav Diaz: Come si può capire, il film è su di lui.
La situazione è complicata per i filmmaker di paesi come le Filippine, o come l’Iran, quando il governo esercita una forte censura: il tuo è un lavoro politico, ma anche artistico, come vivi questa dualità?
Lav Diaz: Lavoro in entrambi i modi. Si può solo dire che è un’estetica della responsabilità per la società in cui vivo. La peculiarità del mio lavoro è la cultura filippina. In questo momento il paese è bloccato. Uso il cinema per parlare dei miei concittadini. Come dicevo, ogni cineasta è responsabile del linguaggio estetico che utilizza. Confrontato al tipo di pensiero e di mentalità dominante, questo atteggiamento può creare dei problemi. Il sudest asiatico ha sempre meno democrazia. La Thailandia è sotto il controllo militare da anni, Cambogia, Laos, Myanmar sono tutti retti da dittature o regimi dispotici, la Malesia lo è da trent’anni, l’Indonesia sta andando sempre più a destra, e nelle Filippine da più di un anno a questa parte c’é Duterte. La sinistra non esiste più. Anche Taiwan è sotto un regime militare. Hong Kong è sotto il controllo cinese. Il Giappone sta tornando a dotarsi di armamenti per le frizioni con la Cina. Nel Medio Oriente è lo stesso. La Turchia sta assumendo posizioni molto pericolose. Erdogan è paranoico, vuole distruggere la comunità curda. Che mentalità è? Non c’è più democrazia nella nostra parte del mondo.
Il personaggio di Narciso ha due volti, come mai l’hai raffigurato così?
Lav Diaz: Un Giano Bifronte, ho usato la mitologia greca. Rappresenta il despota, il demagogo, i leader populisti del mondo. Ma loro sentono solo se stessi, non ascoltano il punto di vista degli altri. Questi sono i leader oggi, in particolare nelle Filippine. Non vogliono sentire nessuno a parte se stessi.
Giano ha una delle due facce bella, che affascina la gente. Questi leader vengono votati, hanno supporter.
Lav Diaz: Anche Duterte è stato votato, incanta le masse. Il problema è l’ignoranza nelle masse, come affrontarla? Come educarli? Sarà difficile distruggere il loro mondo, per la devozione che hanno.
È possibile?
Lav Diaz: Il coinvolgimento è ancora possibile: puoi creare cinema, musica, possiamo scrivere qualcosa, sono le nostre possibilità per impegnarci. Dobbiamo fare questo. Altrimenti affonderemo. Continueremo a stringere il nodo, è molto pericoloso. Possiamo solo usare i nostri mezzi, scrivere, da filmmaker posso fare film. Bisogna essere molto responsabili. L’unica via. Non possiamo uscire in strada a combattere, verremmo uccisi subito. Usiamo solo i nostri strumenti per combatterli.
Perché con Season of the Devil hai adottato il genere musical e perché in questo modo?
Lav Diaz: La provenienza del materiale per questo film è iniziata quando stavo ad Harvard, nel 2016. Stavo preparando un film di gangster, buona parte della mia permanenza lì era stata dedicata a scrivere questo film dal titolo When the Waves Are Gone. Doveva essere girato tra dicembre e gennaio. Ma quando lavoravo alla sceneggiatura, ho cominciato a scrivere anche canzoni, dei lamenti, come delle marce funebri per quello che stava succedendo nel nostro paese. Ho proseguito a scrivere canzoni. E ho considerato che c’era qualcosa che si stava aprendo, una specie di urgenza. Così ho detto ai miei colleghi, a Hazel, a tutti i ragazzi, a Bianca la produttrice: «Non voglio più fare un film di gangster, facciamo un musical. Perché ora ho tante canzoni». E ho cercato di costruire una narrazione con quelle canzoni, adattarle a dei personaggi, li ho creati. Ho pensato che lo avremmo fatto in gennaio, ma alla fine di dicembre sono rientrato e ho cominciato a cercare le location e abbiamo deciso di girare il film in Malesia. Era pericoloso girare nelle Filippine. Avremmo avuto bisogno dei permessi dalla polizia e il film riguarda loro in fin dei conti. Sarebbe stato davvero pericoloso fare il film nelle Filippine, per la mia troupe, volevo tenerla al sicuro. Avevamo inoltre due attori popolari, Piolo Pascual e Shaina Magdayao, e dovevo tener conto anche della folla che avrebbero attratto. Abbiamo registrato le canzoni davanti alla camera, le ho date a loro da memorizzare e tutti i giorni scrivevo lo script e intanto loro imparavano le canzoni.
Sono tutti degli attori, non cantanti professionisti?
Lav Diaz: L’unica cantante professionista nel film è Bituin Escalante, la narratrice. Ma tutti loro hanno familiarità col genere perché vengono dal teatro.
A volte il film ricorda certi polittici medioevali, che raffigurano la vita di Cristo in vari pannelli pittorici, dalla nascita alla fine. Usi ancora, come già nel tuo cinema, vedi Florentina Hubaldo, CTE, messe in scena da tableau vivant, con composizioni dei personaggi nell’inquadratura, fermi, in mezzo a elementi naturali, qui con l’aggiunta della componente canora.
Lav Diaz: Sono come le stazioni della passione di Cristo. Non ne eravamo a conoscenza, ma in Malesia hanno quel tipo di struttura architettonica, che abbiamo sfruttato. Dall’esterno le abitazioni sembrano piccole ma sono case molto lunghe. Sono le vecchie case malesi. Ne abbiamo anche nel Sud delle Filippine. Di fronte sembrano piccole finché non vai dentro. Come un teatro. E non c’è divisione delle stanze per le donne e gli uomini: di fronte alle case, dentro, fino alle cucine è aperto a tutti. Abbiamo trovato questo in Malesia. L’unica cosa che abbiamo ricreato è la casa del gufo ma il resto l’abbiamo trovato. Abbiamo fatto ricerche per i posti, le case.
Come hai deciso di inquadrare le location?
Lav Diaz: Quando vedo le location decido come posizionare la camera. Facciamo qualche giorno prima di sopralluoghi. Creo le storie nella mia testa, mentre le scrivo, poi torniamo dopo qualche giorno. E ho certe idee su come inquadrarli perché ho già visto i posti magari due giorni prima. Se ci vado prima è più facile scrivere perché conosco già i posti.
In questo film torni alla fotografia di A Lullaby to the Sorrowful Mystery, con ombre e squarci di luce intensissima. Perché?
Lav Diaz: In effetti la fotografia è molto espressionista perché ci siamo liberati dalle convenzioni dell’uso della luce e abbiamo agito in libertà. Tutto ciò non è un però processo conscio, fatto deliberatamente e pensato a tavolino. E, direi, piuttosto istintivo, fa parte della libertà di usare la luce senza l’idea di un effetto premeditato, ed è un processo liberatorio.
La luce spesso arriva da dietro (dal fondo della scena) e crea un effetto molto marcato di contro-luce.
Lav Diaz: Sì, in effetti. Questo effetto è particolarmente visibile nella sequenza del rave di Talampunay Blues. Prima delle riprese il mio amico direttore della fotografia e io abbiamo discusso a lungo sul come illuminare questa scena. Poi abbiamo finito per decidere sul set. Cercavamo qualcosa di surreale, è molto concettuale in ogni caso. Eravamo liberi di farlo, di inondare il posto di luce che viene da qualche parte e funziona comunque. Siamo molto liberi, non siamo influenzati da teorie o concetti. Il principio che definisce/caratterizza il nostro lavoro è semplicemente la libertà, con un uso conscio delle lenti. Abbiamo usato una lente, molto larga, credo fosse 9.8., si tratta di una lente veramente larga che, mettendo a fuoco l’immagine in profondità, crea una sensazione molto surreale: il primo piano può essere enorme e lo sfondo molto piccolo. Ne eravamo molto consapevoli e abbiamo usato solo una lente. Larga ma l’abbiamo divisa in due. Crea un’immagine surreale. Abbiamo tagliato l’aspect ratio in due, era una cosa di cui eravamo coscienti, un processo molto disciplinato. La razio diventava 4.3 con una lente con un angolo ampio che distorce tutto.
In Season of the Devil usi molto meno i tuoi long shot che riprendono il tempo reale. Ci sono più stacchi di montaggio. Perche?
Lav Diaz: Ho realizzato che il montaggio per un musical è completamente diverso. Perché i tagli sono dettati dalle canzoni. Generalmente devi tagliare quando la canzone è finita. Negli altri miei film ero più libero. Potevo lasciare andare, ma ho capito che nel musical, quando finisce una canzone devi staccare. Altrimenti sarebbe imbarazzante per gli attori che non hanno più nulla da fare. Perché i dialoghi sono le canzoni. Per cui ero schiavo di quello, se fai un musical sono le canzoni che impongono il montaggio. E così il tempo. È il mio primo musical.
Ma tu sei sempre stato un musicista.
Lav Diaz: Ho cercato di esserlo.
La canzone della fine è tua?
Lav Diaz: Ho registrato la canzone di fronte alla camera e l’ho data a loro. È un “demo”.
Hazel Orencio è trasformata nel peggior ragazzaccio violento, dopo Narciso è il personaggio più negativo del film. Noi sappiamo che è una donna, ma il pubblico che non la conosce non lo percepirà. Perché farle interpretare un ruolo maschile?
Lav Diaz: Quando ho iniziato a scrivere i personaggi, lei non sapeva quello che sarebbe successo. Quando alla fine ho presentato loro definitivamente il personaggio, le ho detto che sarebbe stata un uomo. «Sei un uomo», «Davvero?», «Devi tagliarti i capelli e assumere un’immagine da macho in tutto e per tutto». Ancora, come per la scrittura, mi sono completamente liberato, mi sentivo completamente libero. Volevo essere concettuale. Sono due elementi che ho portato avanti.
Tutto contribuisce a un senso di straniamento brechtiano. Anche per le canzoni.
Lav Diaz: Non puoi trasformare qualcuno in un qualcosa di completamente diverso senza tenere conto dell’ideologia folle/ demente/alienata del personaggio. È stato difficile per lei, in certi momenti aveva grandi dubbi, ha davvero pianto a volte e mi ha detto che avevo fatto un errore, ma le ho detto che non mi sbagliavo e doveva continuare.
Se non sai che è una donna, percepisci qualcosa di strano, di malvagio in questo personaggio. Anche se non fa nulla comunica qualcosa di inquietante.
Lav Diaz: È nella psiche. Il discorso vale per gli attori: «Fai una persona malvagia, sii cattivo. Non giudicarla, semplicemente sii quella persona cattiva! Non porti questioni morali o etiche, sii cattivo! Non razionalizzare, semplicemente, fallo!». Mi rendo conto che non è facile per loro. Ma devi considerare la realtà, come la gente può essere cattiva. Il male è visibile. Il male è davvero reale. Non solo per le altre persone, è dentro di noi. Scoprirlo è spaventoso. Se perdi il controllo passerai al lato oscuro ed è molto spaventoso.
Fai vedere però anche il loro punto di vista, come hai già fatto in altri film. Il personaggio interpretato da Hazel dice spesso: «Stiamo combattendo per la giustizia».
Lav Diaz: È la loro presunzione, credono di avere ragione. È il risultato del populismo.
Ormai a Berlino è stato coniato il ritornello “La la la Lav”, perché la ripetizione di quel motivo crea dipendenza.
Lav Diaz: Riguarda il fascismo, che deve creare una retorica. È un discorso di condizionamento. Devi ripetere e ripetere. Bombardare la gente. E le bugie così diventano realtà. Una prospettiva apocrifa.
Come un brainwashing…
Lav Diaz: Precisamente, un condizionamento, un lavaggio del cervello, un bombardamento.
Ci sono personaggi del film che non si arrendono.
Lav Diaz: Sì, resistono. C’è chi combatte sempre per i propri diritti. Dobbiamo mostrare un impegno che è ancora vivo. Una ribellione che è ancora viva. Il sacrificio che è ancora vivo. Possiamo farlo, è una forma di coinvolgimento. Per usare queste virtù dell’esistenza.
Manca la melodia, dice un personaggio. Non c’è melodia durante la dittatura.
Lav Diaz: La dittatura è vuota. Impone solo delle cose. C’è vita, c’è anima? No, non c’è una anima, non c’è melodia.
Così le canzoni sono senza musica, a cappella, non melodiche. Non come in un musical.
Lav Diaz: Non è maestoso come un musical che mescola fiati e archi. Abbiamo fatto tutto senza questo ornamento. Per me è meglio con questa forma. È deliberatamente primitiva, più appassionata; come un lamento, come i canti in chiesa, come una passione durante la settimana santa. Come le canzoni della gente durante le processioni, durante le flagellazioni. Le canzoni della passione: si fanno dappertutto nelle Filippine. Si canta il sacrificio di Cristo. Le canzoni sono arrivate prima, quando facevamo il film le eseguivamo a cappella, le rendevamo come una cosa molto primigenia. È subliminalmente una passione, un lamento, un’elegia, una marcia funebre per una nazione, i canti di un funerale. Molto desolante, è un lutto.
Perché citi i Beatles parlando del film come fatto dai membri della Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, rinchiusi in un sottomarino giallo?
Lav Diaz: Questo perché ho chiamato il film una rock opera filippina, per una mancanza di frasi per descriverlo. È un’opera in ogni modo. Sono stato molto influenzato dai Beatles, dai Rolling Stones, dalla musica degli anni Sessanta. La musica occidentale la senti alla radio, dappertutto nelle Filippine. Quella degli anni Sessanta e Settanta, come il rock’ n’ roll. Ci arriva anche la musica italiana, che ci ha molto influenzato. Una ballata tradizionale filippina, Kundiman, è stata influenzata dalle ballate italiane e spagnole, è un mix di quelle. Se ascolti le canzoni filippine oggi, vengono da canzoni di chiesa tipiche del cattolicesimo. Tutto comincia con le canzoni della Bibbia. Questa è una grande influenza della musica e della cultura latina specialmente della chiesa.
Qual è stata la più grossa difficoltà in questo progetto?
Lav Diaz: È difficile fare il mio cinema, senza perdersi seguendo varie proposte allettanti, senza assecondare le richieste dei festival e degli studios. Per me è importante fare il mio cinema senza compromessi, devo stare molto attento. La lotta è questa perché è facile venire risucchiati dal sistema e dargli tutto quello che vuole, adattarsi ai loro gusti. Non bisogna fare compromessi.