Il codice del babbuino

Il codice del babbuino

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Torna il cinema di Amanda Flor, brillante collettivo artistico di stanza a Guidonia; Il codice del babbuino è un’immersione nel buio della notte, un viaggio oscuro nei meandri di una capitale disfatta e disillusa. Un’opera rabbiosa ma dimessa, che si insinua nel corpo (mal)sano del cinema italiano.

Nella notte

Nelle vicinanze di un campo rom viene rinvenuto il corpo di una donna, vittima di uno stupro. Il compagno della ragazza, Tiberio, si mette subito alla ricerca dei responsabili, convinto a vendicare personalmente la sua donna. Accanto a lui l’amico Denis, padre di famiglia senza lavoro che, per la disperazione, ha deciso quella notte stessa di iniziare a spacciare droga. Denis tenta in tutti i modi di far desistere dai progetti di vendetta il giovane e impulsivo Tiberio, ma la situazione si complica terribilmente quando entra in scena il Tibetano, sornione e beffardo boss del quartiere con il quale Denis è pesantemente indebitato… [sinossi]

Il codice del babbuino, che segna il ritorno in scena della realtà Distribuzione Indipendente, è la conferma di quanto abbia bisogno il cinema italiano – e non solo quello che si muove al di fuori del circuito produttivo “mainstream” – di Amanda Flor, collettivo di Guidonia, alle porte di Roma, che un decennio fa arrivò sulla ribalta mediatica grazie a La rieducazione, per poi ribadire la centralità di uno sguardo non allineato con Ad ogni costo, livida vicenda di malaffare e mala-vita. Una produzione, quella di Amanda Flor – ora trasformatasi in Donkey’s Movie, ai cui vertici siedono Davide Alfonsi e Denis Malagnino – che non ha nessuna intenzione di cedere al fascino più o meno ambiguo dell’industria capitolina. Periferici, come la Guidonia in cui vivono. Periferici, come la realtà che ogni volta tornano a mettere in scena. Periferici, come lo spazio che viene purtroppo loro concesso. Vanno fatti i complimenti a Distribuzione Indipendente, ma viene da chiedersi come sia possibile che nessun festival abbia trovato una collocazione a Il codice del babbuino, anche nell’anno in cui il cinema italiano veniva più difeso e promosso, anche per dimostrare ideale vicinanza alla Legge Franceschini. Invece, come accaduto con altri esempi simili (The First Shot di Francioni/Yang, che dopo aver trionfato a Pesaro si sono dovuti muovere in forma del tutto privata, appoggiandosi sull’aiuto di Zomia, o l’ancora inedito Il demone di Laplace di Giordano Giulivi, che ha ottenuto premi in giro per il mondo), Il codice del babbuino rimarrà quasi completamente invisibile, fantasma costretto suo malgrado ad aggirarsi in un panorama che chiude gli occhi al suo passaggio per continuare a fare finta di nulla.

La fiera indipendenza di Amanda Flor/Donkey’s Movie è già riscontrabile in una scelta estetica estrema: il film è interamente girato di notte, e quasi interamente per strada. Il set è il mondo che circonda gli stessi autori. Un road-movie senza destinazione reale, uno spaccato di vita che rifugge il consolatorio appiglio del “reale” fine a se stesso per cercare di penetrare la corazza di un’umanità disagiata e mostruosa. In quell’infinita sequela di immobili scabri e vuoti d’umana presenza che i protagonisti in macchina sfiorano nel loro peregrinare dominato dalla rabbia e dalla frustrazione c’è già tutto il senso di uno sguardo non semplice, che non si adagia nella banalità ma è ancora alla ricerca di un conflitto, di un punto di non ritorno, di quella soluzione di continuità con l’esistente nella quale si agita intrappolata la furia degli ultimi.
Mette in scena una guerra tra poveri, Il codice del babbuino, ma prima ancora racconta una società che ha perso qualsiasi contatto con l’etica e la morale, ed è guidata dal puro istinto bestiale. Inizia con un movimento nella notte a disvelare un cadavere, il film di Alfonsi e Malagnino – quest’ultimo anche eccellente interprete – e poi non trova più pace. È una fuga nella notte, una ricerca senza la lanterna di Diogene, a tentoni, un percorso accidentato, una dichiarazione di guerra senza nemici reali, se non quelli che costruisce la mente.

Con un’asciuttezza che nega ogni possibilità concreta al lirismo per affidarsi a una lettura brutale e barbarica del mondo, Il codice del babbuino si slega completamente dalla lettura canonica della periferia metropolitana: senza pasolinismi o caligarismi a cui affidarsi, Alfonsi e Malagnino guardano al “rape & revenge” ibridandolo con la struttura cardine del western. La ricerca dei colpevoli ha la catarsi impossibile e la paranoia di Sentieri selvaggi, pur negandosi qualsiasi vertigine epica. Così il campo rom è la versione moderna della riserva indiana. Il panorama monumentale è però strozzato dall’invadenza dei palazzi, alveari di un’umanità che non ha più interesse verso i suoi simili e si può permettere di mettere in pratica la violenza – o suggerirla, o minacciarla – senza più alcuna motivazione. Senza più alcuna etica. Senza più alcun codice di riferimento.
L’estetica volutamente respingente del film è l’unico modo concreto per mettere in scena un’etica, per veicolare un racconto che scuota la dormiente obesità di un pubblico anestetizzato da un immaginario sempre più addomesticato e gestibile. Non si può gestire una materia notturna e oscura come Il codice del babbuino, e la corsa verso l’alba non è detto che porti a una redenzione, concetto cristiano che poco ha a che fare con la laicità delle immagini lavorate dai due registi. Un film che racconta una nazione in cui la giustizia si è definitivamente trasformata in vendetta privata, unilaterale, da confinare in un angolo al di fuori della collettività e da occultare il più in fretta possibile. Livido, glaciale, ma anche rapsodico e pulsante, Il codice del babbuino è un film prezioso, che non andrebbe sprecato o trattato con sufficienza. Un’opera che fa dell’indigenza la sua forza etica ed estetica. Con fierezza.

Info
Il trailer de Il codice del babbuino.
Il codice del babbuino sul sito di Distribuzione Indipendente.
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