Cafarnao

Cafarnao

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C’è di tutto in Cafarnao per cercare di convincere una giuria festivaliera ad attribuire un premio: baraccopoli, bambini maltrattati dai genitori, spose-bambine, carcere minorile, immigrazione clandestina, sguardo ad altezza bimbo, il traffico d’infanti. Il film di Nadine Labaki ricatta il pubblico dal primo all’ultimo minuto.

Il sorriso di Zain

All’interno di un tribunale, in Libano. Zain, un ragazzino di 12 anni, viene presentato il giudice. «Perché stai facendo causa ai tuoi genitori?», gli chiede il il giudice. «Per avermi fatto nascere», risponde Zain. Da qui nasce la narrazione degli eventi… [sinossi]

C’è una domanda, alla quale si può rispondere solo ricorrendo a supposizioni, che accompagna la visione di Cafarnao: con quale onestà Nadine Labaki si è avvicinata a questa storia, e con quale onestà ha deciso di metterla in scena? Battente bandiera libanese, ma in realtà portato a termine grazie a un molteplice sforzo produttivo, la terza regia dell’attrice nativa di Baabdat sembra costruita su misura non solo per competere in un festival europeo, ma anche per convincere una giuria a prenderlo in considerazione per i premi principali. Il problema è sempre quello annoso dei temi. Il tema, l’ancora di salvataggio cui spesso e volentieri si aggrappano le giurie, soprattutto quando le personalità che ne fanno parte hanno un’idea diversa di cosa sia la materia cinematografica. Per non lasciare nulla d’intentato Labaki infarcisce il suo film di tutte le tematiche possibili e immaginabili: c’è la baraccopoli, i bambini che crescono in mezzo alla strada, maltrattati anche dai propri genitori, la sposa-bambina, il carcere minorile, l’immigrazione clandestina, il sogno di raggiungere l’Europa, il traffico d’infanti. In un paio d’ore si vorrebbero condensare i mali del mondo, senza però cercare in alcun modo di metterne a fuoco le cause. Tutto sembra determinato dall’alto, come quei droni che si allontanano dalla bagarre quotidiana per riprendere il quartiere da distanza siderale, in una scelta estetica già di per sé poco condivisibile che diventa ancor più sinistra se letta in chiave strettamente politica. Certo, si sa che i genitori del coraggioso ed etico Zian – un dodicenne fin troppo consapevole della sua condizione umana e di quella dei suoi simili, arrestato per aver accoltellato un uomo ma deciso a portare in tribunale chi lo ha messo al mondo – maltrattano lui e i suoi fratelli, al punto da dare in sposa la figlia undicenne in cambio di un po’ di pollame, e si sa che anche loro sono in realtà vittime, troppo poveri per pagare anche solo il certificato di nascita dei loro bambini. Si sa che esiste il matrimonio con bambine, ma chi lo contrae non ha conoscenza dei danni che può provocare un rapporto sessuale con un corpo non ancora formato. C’è il carcere minorile con le blatte che corrono lungo il muro, ma poliziotti e militari non fanno che il loro dovere, e si prodigano in ogni caso per salvare Younas, il bimbetto dell’immigrata clandestina etiope che sarebbe destinato alla vendita. C’è sempre un punto nel quale l’analisi di Labaki si ferma, non osando o non sapendo andare oltre. Se ci sono dei morti di fame è perché il mondo è ingiusto, pare di leggere tra le righe. Chi comandi questo mondo e chi ne detti le regole è però un mistero destinato a rimanere fitto, e che è meglio non indagare più di tanto.

Anche perché il quadro infernale proposto da Cafarnao è comunque fotografato a dovere, con i colori ben lavorati da Christopher Aoun, ed è montato in modo serrato e organico da Konstantin Bock e Laure Gardette. C’è una cura, in Cafarnao, che rende ancor più difficile da digerire l’intero impianto scenico; nel mettere in quadro alla perfezione il piede immerso nell’immondizia o il bambino piangente in un angolo, nel costringere quella che si vorrebbe una rappresentazione del reale a sottostare alle regole del mercato – anche quello festivaliero, tra i più ipocriti in circolazione, sotto questo punto di vista –, si cela un’organizzazione glaciale, in realtà totalmente lontana da qualsivoglia impeto di empatia. Ha in sorte, Labaki, di aver intercettato un interprete dallo sguardo profondo e doloroso al di là di ogni trucco e maquillage: il tredicenne Zain Al Rafeea, immigrato dalla Siria in Libano dove lavora in un supermercato come commesso, è la scoperta migliore del film, e unico motivo d’interesse durante la visione di Cafarnao. Inevitabilmente, come sempre quando si ha a che fare con pubescenti, qualcuno si lancerà in parallelismi con l’Antoine Doinel di truffautiana memoria (lo si è fatto appena dodici mesi fa per lo splendido protagonista di A Ciambra di Jonas Carpignano). Un gioco d’apparentamento banale, ma che l’occhio della camera di Labaki insegue a ogni singola inquadratura, fino al più ovvio dei primi piani conclusivi.

Nel suo artificio Cafarnao è una perfetta macchina da festival, e magari riuscirà anche a tornare a casa con qualche premio. Resta però anche la preoccupante riprova di una produzione che sfrutta gli sfruttati una volta di più, lavorando sempre su di loro e mai con loro. Resta la visione di un film costruito a tavolino per spingere alle lacrime lo spettatore, e costringerlo a sentirsi in colpa per una condizione sociale sulla quale però non gli verrà mai proposto di poter davvero intervenire. Un cinema edulcorato per il pietismo socialdemocratico e cattolico dell’Europa benestante, che può tenere a distanza i problemi ma fingere che appartengano anche a loro. Zian otterrà il passaporto, e potrà raggiungere l’Europa dove verrà salvato e introdotto a una vita sociale adeguata. I suoi fratelli e le sue sorelle continueranno ovviamente a morire, senza che le loro vite diventino di particolare interesse mediatico. Perché è nella loro natura patire e morire, o no? C’è da interrogarsi sull’onestà di Labaki e del suo film, ma a ben vedere è lo specchio perfetto di un mondo, quello del cinema, che con troppa facilità smette di interrogarsi veramente, e di ragionare sulle proprie ipocrisie.

Info
La scheda di Cafarnao sul sito del Festival di Cannes.
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