Beate

Questo Beate, esordio nel lungometraggio di Samad Zarmandili, si affida a datati codici da commedia sociale, con un discorso abbastanza effimero sul connubio sacro-profano e un’impostazione non troppo lontana da quella di una fiction per famiglie.

Beatitudini autogestite

Armida, combattiva operaia in una fabbrica di biancheria intima, viene improvvisamente messa in cassa integrazione insieme alle sue colleghe, quando la dirigenza decide di spostare la produzione nell’Europa dell’Est. Disperata, ma non rassegnata alla perdita del lavoro, la donna decide di chiedere aiuto alla persona più improbabile: sua zia Restituta, suora in un convento locale, che con le sue consorelle è a sua volta esperta nell’arte del ricamo… [sinossi]

La sinergia sacro/profano in chiave comica è vecchia quanto il cinema. Meglio, vecchia quanto la narrazione, databile a ben prima che gli immaginari personaggi di Don Camillo e Peppone creati da Giovanni Guareschi andassero a battere, prima nei libri e poi nei film, i territori della Bassa padana. Riportare questo connubio nella poco leggibile e contraddittoria Italia odierna, in cui gli attori in campo si sono moltiplicati e gli schieramenti sono ben meno granitici di allora, è un compito certo non proprio agevole. Per questo, già lo spunto di partenza di questo Beate (combattiva sindacalista nipote di una suora, che proprio alla pia parente si trova, suo malgrado, a chiedere aiuto per la sua battaglia decisiva) appare un po’ fuori tempo massimo. Il paesino del Polesine in cui il film è ambientato sembra immobilizzato nel tempo, portatore di ruoli cristallizzati, in una vicenda che invece, per il suo nucleo forte, vorrebbe calarsi fortemente e saldamente nella contemporaneità. Ma, in fondo, questo accostamento di vecchio e nuovo, di storie di donne di oggi (di qua e di là del muro di un convento) in un microcosmo apparentemente immutabile, non è necessariamente un male. Anzi.

Il guaio dell’esordio alla regia di Samad Zarmandili, già aiuto regista con varie esperienze per il grande e piccolo schermo, è che sviluppa uno spunto già a rischio (per la sua insita capacità di generare cliché) nel modo più risaputo, didascalico e privo di brillantezza. Non si vuole contestare, qui, tanto la capacità del regista di cogliere gli ambienti della storia con la sua macchina da presa e fissarli sullo schermo, compito in cui anzi il film mostra una discreta efficacia: la giustapposizione tra la fabbrica e il convento posta nei minuti iniziali, la natura “partecipata” dell’una e dell’altro e la vitalità delle donne che animano entrambe, funzionano abbastanza bene, catturate con una mobilità della macchina da presa anche insolita per una commedia italiana. Il problema di questa commedia sta semmai nel “manico”, in una sceneggiatura i cui snodi principali risultano prevedibili quasi in modo irritante, in personaggi scritti in modo piatto e monodimensionale (in primis la protagonista col volto di Donatella Finocchiaro, e la rampante dirigente d’azienda interpretata da Anna Bellato). Non ci si mette molto a immaginare le ricadute dello spostamento tra le mura di un convento di una produzione di biancheria intima femminile, con l’attiva partecipazione delle sue residenti: la sceneggiatura, volutamente priva di guizzi, non si scosta di un millimetro dai sentieri già tracciati da altri, stando ben attenta a non uscire dal recinto del politically correct.

Il ritmo da commedia di questo Beate risulta tanto vivace quanto ne resta effimera la sostanza, con la sua tendenza a fermarsi alla superficie dei problemi, a un didascalismo pesante e smaccato nella loro illustrazione (ne è esempio il già citato personaggio della Bellato), a cenni estemporanei a tematiche collaterali che mostrano la consistenza di un discorso da autobus (il patrimonio ecclesiastico e la sua mancata tassazione). Il personaggio interpretato da Maria Roveran, posto in una posizione narrativamente centrale (è la suora artefice, insieme alla protagonista, della collaborazione tra impresa autogestita e convento) resta pochissimo caratterizzato, ponendosi come semplice strumento narrativo collaterale, atto a occupare la casella che fin da subito avevamo intuito spettarle. Proprio la figura con maggior potenziale narrativo, quella del collaboratore/amante della protagonista col volto di Paolo Pierobon (unica, “aliena” presenza maschile nell’impresa tessile) viene invece sciupata, restando irrisolta e finendo per sparire prima del tempo dalla trama. Nella parte conclusiva del film sembra poi sopraggiungere una certa stanchezza, con l’irruzione di un “miracolo” a risolvere una trama a cui, forse, neanche gli stessi sceneggiatori si sentivano più in grado di dare uno sbocco interessante.

Anni fa, certa critica militante avrebbe forse bollato il film di Samad Zarmandili come esempio di prodotto pacificato o “riformista”, fintamente attento alle tematiche sociali e solo illusoriamente dalla parte dei più deboli, in realtà teso alla celebrazione delle potenzialità del sistema capitalista, nella sua presunta capacità di offrire opportunità a chi sappia (ri)mettersi in gioco. Magari con l’aiuto del potere da sempre alleato a quello del Capitale, ovvero quello ecclesiastico. Noi non arriviamo a tanto, anche perché restiamo convinti che l’analisi debba svolgersi, principalmente, con altri strumenti. Ci limitiamo, quindi, a dire che Beate appare poco più di una versione da grande schermo di una (vecchia) fiction Rai per famiglie, con un’estetica un po’ più curata, qualche spunto che ammicca a modelli internazionali (Sister Act, Calendar Girls), un ritmo discreto, e un potenziale di rappresentazione della realtà (pur in chiave di commedia) estremamente scarso. Un po’ poco, ma in fondo non molto diverso da quanto la presentazione del progetto poteva, legittimamente, lasciar intendere.

Info
Il trailer di Beate.
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