Come cani arrabbiati

Come cani arrabbiati

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Cinema “pariolino”, poliziottesco, erotico e qualche ambizione (poco convinta) di riflessione politica. Come cani arrabbiati di Mario Imperoli conserva i suoi maggiori meriti nel freddo approccio al racconto della violenza e dell’atto gratuito. In dvd per Cinekult e CG.

Roma. Dopo una rapina allo stadio durante una partita di calcio, conclusasi con due omicidi, un trio di giovani criminali (due uomini e una donna) provenienti da famiglie benestanti si dedica alla violenza più efferata. Il commissario Muzzi, integerrimo uomo d’ordine dai metodi poco convenzionali, indaga su di loro, sicuro fin da subito che uno dei criminali sia Tony Ardenghi, figlio di un facoltoso uomo d’affari. I ragazzi iniziano a colpire anche le prostitute frequentate dal padre di Ardenghi, e per questo Muzzi coinvolge la sua collega Germana nelle indagini chiedendole di infiltrarsi negli ambienti della prostituzione di strada… [sinossi]

La carne esposta. In Come cani arrabbiati (1976) di Mario Imperoli salta innanzitutto agli occhi l’insistenza dell’esposizione violenta di carne di varia provenienza. Alle prime battute, mentre l’indagine del commissario Muzzi è già avviata e coinvolge uno zoo, viene data piena evidenza al pasto quotidiano rosso vivo di una tigre. Più avanti la carne diventa scopertamente umana, sia nell’ordine della sua violazione sia di corpi nudi puramente esposti, in atti erotici o meno. Nel tetro finale, il corpo umano va incontro alla sua violazione più feroce, messo al centro di un linciaggio di massa che si chiude con lo sguardo vitreo di un cadavere in macchina. La violazione ultimativa di una carne sublimata nella parola sta nella didascalia finale che spazza via qualsiasi preoccupazione di politicamente corretto: “Quando muore un assassino non è tempo di lacrime”.
Nel quadro del “cinema pariolino” che dopo i fatti del massacro del Circeo sfruttava a stretto giro tale drammatico avvenimento in Italia per film di exploitation, Come cani arrabbiati mescola disinvoltamente varie tendenze commerciali del tempo, mettendo insieme il poliziottesco con pruriti erotici e con la polemica politico-sociale. Tuttavia le categorie del cinema cosiddetto civile appaiono qui assunte come pura convenzione letteraria, ripercorsa in modo rapido e stilizzato, mettendo enormi semplificazioni in bocca ai personaggi. Tanto che, se il mood generale flirta col reazionario, è pure difficile comunque stabilire dove sta l’autore.
Nel corso del racconto infatti il commissario Muzzi viene pure accusato dai suoi superiori di portare nella sua professione un idealismo politico di stampo comunista. In realtà, come altri commissari del poliziottesco italiano del tempo, Muzzi conduce una battaglia in nome della povera gente in contrasto propriamente populistico nei confronti delle alte sfere economiche e politiche del paese. E vi è almeno una sequenza in tal senso significativa, quel ricevimento a villa Ardenghi in cui non solo il bestiario alto-borghese è rapidamente abbozzato con gusto sarcastico, ma sembra pure che in Muzzi emerga almeno un atto di razionale comprensione nei confronti del fenomeno della violenza tra i giovani di buona famiglia. Così come al trio di ragazzi violenti viene riservata una parentesi sulla spiaggia in cui s’intrattengono a giocare in modo infantile, inquadrandoli probabilmente come frutti irresponsabilmente malati di una società deviata e ragionando sul loro ribellismo anarcoide come risultato di una strana ingenuità.
La colpa, insomma, è da ricercare risalendo lungo la genealogia del crimine, non nella pura e semplice conclusione che un assassino resta sempre un assassino, come induce a pensare la didascalia finale. Tanto che alla fine pure l’ultima sequenza e la relativa didascalia sembrano venarsi di più o meno volontaria ambiguità, inquadrando nel volto insanguinato del ragazzo il frutto ultimo di una società che alla comprensione, prevenzione e corso della giustizia ha sostituito un impazzimento generale sull’onda degli istinti più bassi e immediati. Certo, gli assunti sono i più facili possibili, e altrettanto si può dire della banale psicologia di massa che sottende al discorso: un capitalismo feroce e sfrenato, rapidamente sintetizzato in una lezione di vita di papà Ardenghi, non può che dare frutti marci, la polizia ha le mani legate nei confronti delle alte sfere della società, e all’aria ci vanno solo i cenci.

Realizzato con evidente povertà produttiva, Come cani arrabbiati fa fatica insomma a essere recepito oggi come una solida e coerente riflessione politica. Assume coordinate narrative consolidatesi nell’uso in quegli anni e le ripercorre come puro luogo comune, curandosi poco di costruire discorsi solidi e motivati. Se gli si vuole riconoscere un sentimento civile, possiamo individuarlo per l’appunto solo in un divagante populismo, che ora guarda con pietismo alle tragiche ricadute sulla povera gente (il suicidio dalla finestra resta molto efficace), ora sembra discostarsi terrorizzato dall’orda montante del popolo – il linciaggio finale in mezzo alle bandiere rosse allude con mossa quasi distopica alle incombenti minacce di una schiacciante esasperazione sociale. Ma d’altra parte il film di Imperoli mostra un tale compiacimento per la pura mostrazione che è difficile prendere sul serio le sue confuse argomentazioni. L’idealista e “comunista” commissario Muzzi non disdegna ogni tanto di concedersi pause erotiche ridotte a pura attrazione mostrativa, così come resta evidente il compiacimento nelle sequenze di violenza – alcune veramente molto dure. Emerge, in ultima analisi, una preminente tendenza al sensazionalismo, che sfrutta disinvoltamente la fresca cronaca del tempo per colpire lo spettatore nel suo sdegno, e al contempo per compiacerlo nel suo piacere scopico più immediato. Certo, si potrebbe controbattere che la mostrazione della violenza è già in sé politica, ma magari è necessario un maggiore rigore espositivo, che si può perseguire anche senza disporre di budget principeschi (anzi, spesso povertà fa proprio rima con rigore). Come cani arrabbiati rimane invece un film sostanzialmente naïf, che rubacchia qua e là temi importanti ma riletti in una chiave di cinema elementare e immediato in cerca di stupore e riprovazione nel pubblico, tanto da trascurare spesso e volentieri anche la più semplice coerenza narrativa – basti pensare al subplot della relazione tra Muzzi e Silvia, abbastanza ingiustificato.

Tuttavia, pur rimanendo nelle premesse poveristiche del film, emergono alcuni meriti puramente stilistici soprattutto nelle sequenze più efferate. Sostenuto anche da un buon lavoro sulla fotografia, Imperoli imbastisce una prima sequenza memorabile nel tentativo di fuga dell’ostaggio (Gloria Piedimonte, la “guapa” di Discoring), ben scandito nei suoi tempi di suspense e nell’accuratezza della scenografia. Soprattutto in questo brano emerge la qualità del racconto di un conclamato sadismo, al quale è associata anche una figura femminile – diversamente dalla realtà dei fatti del Circeo, uno dei criminali nel film è una donna. Lo stesso si può dire per la capacità di ricreare gli ambienti della prostituzione, dove di nuovo la violenza è messa in scena con tempi lunghi e gusto per la totale evidenza. L’esposizione della carne, per l’appunto: il racconto di belve affamate che si aggirano in atmosfere a loro modo espressioniste, dove spesso gli oggetti (i corpi stessi, ricondotti a una condizione oggettuale) si caricano di valenze espressive.
Pur alternati a scombiccherate parentesi quasi divertite (le assurde schermaglie tra Muzzi e la collega Germana), colpisce più di tutto la cinica freddezza dell’approccio narrativo. Se nella figura di Muzzi si percepisce la ferma condanna accompagnata dal tentativo della comprensione di un fenomeno, d’altro canto Imperoli si adopera al racconto di una conclamata amoralità nei suoi tre protagonisti, ben inquadrati nella loro totale assenza di empatia.

In tal senso Come cani arrabbiati raggiunge forse il suo vero scopo, quello di raccontare un piacere alieno a se stesso, l’atto gratuito nella sua più pura e atroce insensatezza, che in almeno un caso si colora di condanna dell’omofobia in largo anticipo sui tempi culturali. Sfrondando il film dalle sue ridicole battute stentoree, la violenza narrata è sensazionalistica ma sembra pure veicolata al di sopra del giudizio, tanto più agghiacciante nella sua profonda concretezza. Ad occhi odierni sono molti gli elementi impervi nella ricezione di un film simile. Alcuni rasentano l’imperdonabile: sia pure in un contesto di genere e mirata a enfatizzare il cinico disincanto di un convenzionale commissario, dà i brividi ascoltare una battuta in cui si ipotizza che tutto sommato, nel violento approccio sessuale al quale Germana è riuscita a sfuggire, forse la donna ha trovato anche qualcosa di piacevole – battuta, si badi bene, che dà i brividi soprattutto perché ridotta a mera battuta di servizio, interscambiabile con qualsiasi altra, e in tal senso probabilmente indicativa di un “pensare comune”.
Sicuramente Come cani arrabbiati rimane, come altri film dell’epoca, una traccia significativa per la storia del costume italiano e della sua evoluzione (involuzione? immobilità?), e uno degli studi più interessanti che potrebbe stimolare è esattamente intorno alla sua ricezione coeva, per tastare il polso di una società e del suo immaginario popolare, e magari tracciarne la continuità col presente. Ciò detto, resta comunque indubbia la capacità di Imperoli di spogliare il proprio sguardo di fronte alla violenza, restituirla alla sua sostanza cruda e materica, tanto sensazionalistica quanto fortemente espressiva. Un pessimismo totale e schiacciante che trova giusto qualche boccata d’aria nella convenzionalità letteraria di un commissario decisamente poco credibile, e che cerca impensabili controcanti nella musica di Fabrizio De André. Sono tre le sue canzoni (“La canzone dell’amore perduto”, “La ballata del Michè”, “La canzone di Marinella”) che intervengono a imbastire contrasti estetici con la sostanza visiva. Per cui alcune scelte appaiono ben ponderate e meditate, testimoni di una solida coscienza della messinscena. Intorno, certo, è trionfo della convenzione e di cinema ideato per un consumo rapido e commerciale. Ma restano comunque tracce di uno sguardo, e non è poco.

Extra: “Il tempo delle belve” (16′ 21”), presentazione di Davide Pulici a cura di “Nocturno”.
Info
La scheda di Come cani arrabbiati sul sito di CG Entertainment.
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