Il sindaco del rione Sanità

Il sindaco del rione Sanità

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Mario Martone, dopo averlo già portato in scena in teatro, adatta per il grande schermo Il sindaco del rione Sanità, una delle pièce fondamentali nell’opera di Eduardo De Filippo. Nel farlo sceglie una interpretazione non sempre convincente del teatro filmato, quasi a suggerire l’impotenza della Settima Arte di fronte al proscenio; ma a sorprendere è la volontà di tradire il testo originale, riscrivendo completamente un passaggio dirimente della scena e di fatto smentendo lo stesso De Filippo. Una scelta estrema che non è supportata da un senso rigoroso e che ingarbuglia ulteriormente la matassa. Fuori tono Francesco Di Leva nella parte del protagonista.

Filmare il teatro è filmare la vita?

Antonio Barracano, uomo d’onore che sa distinguere tra gente per bene e gente carogna, è ‘Il Sindaco’ del Rione Sanità. Con la sua carismatica influenza e l’aiuto dell’amico medico amministra la giustizia secondo suoi personali criteri, al di fuori dello Stato e al di sopra delle parti. Chi ‘tiene santi’ va in Paradiso e chi non ne ha va da Don Antonio, questa è la regola. Quando gli si presenta disperato Rafiluccio Santaniello, il figlio del fornaio, deciso a uccidere il padre, Don Antonio riconosce nel giovane lo stesso sentimento di vendetta che da ragazzo lo aveva ossessionato e poi cambiato per sempre. Il Sindaco decide di intervenire per riconciliare padre e figlio e salvarli entrambi. Il Sindaco del Rione Sanità di Eduardo De Filippo diventa un film di forte attualità, capace di raccontare l’eterna lotta tra bene e male. [sinossi]
Scusate, ma non mi sento tanto bene. La natura umana così è. Il nemico sta sempre in agguato: mentre stale bello e buono ti tirala pugnalata. È cosa ‘e niente. Noi stasera facciamo un poco di allegria al dottore che deve partire. Il dottore per noi è stato un amico che per molti anni si è sacrificato per aiutarci in tutte le eventualità. Noi lo ringraziamo e gli siamo riconoscenti. Sarebbe rimasto ancora in mezzo a noi e avrebbe fatto ancora il suo dovere se non fossi stato io a dire: Professo’, è venuto il mo-mento che la dobbiamo smettere. Tengo un’età, sono stanco, qualche acciacco ci sta, e mi voglio ritirare pu-r’io a vita privata. Da questa sera il rione Sanità non dipende più da me.
Eduardo De Filippo. Il sindaco del rione Sanità, Atto Terzo.

Il sindaco del rione Sanità messo in scena da Mario Martone si chiama ancora Antonio Barracano, ha ancora due case – una nel rione e l’altra alle pendici del Vesuvio –, ha ancora una moglie, dei figli, due adorati cagnacci da guardia, e un dottore che lavora per lui medicando, rammendando e salvando da morte certa i guappi, gli idioti e sbruffoni che passano la loro vita a difendere il proprio onore a suon di coltellate o di pistolettate. Il sindaco del rione Sanità messo in scena da Mario Martone è ancora lì, a disposizione di tutti, per cercare di appianare le controversie senza che ci scappi il morto e che la polizia intrufoli il capino in affari che non la riguardano (così pare a chi quegli affari li porta avanti). Si interrompono però qui, a ben vedere, le similitudini tra l’Antonio Barracano descritto da Eduardo De Filippo nella sua pièce portata in scena per la prima volta nel 1960 al Teatro Quirino di Roma, e l’Antonio Barracano ridisegnato da Mario Martone in un’epoca così televisiva da essere già post-televisiva, almeno nel senso classico dell’elettrodomestico. Perché, a giudicare dall’operazione che Martone ha dapprima portato in teatro e quindi tradotto in immagini in movimento, quel mondo descritto da De Filippo non esiste più. Inattuale, superato. Una lettura che trova la sua evidenza in più di una delle scelte operate dal regista di Teatro di guerra e Noi credevamo. In primo luogo si pensi alla scelta dell’attore protagonista: il ruolo di De Filippo è pensato per un uomo sui settantacinque anni, mentre Martone opta per Francesco Di Leva – rivelazione una quindicina di anni fa in Vento di terra di Vincenzo Marra, e poi premiato per la sua interpretazione nel Gomorra teatrale – che ha da poco superato i quaranta. Si vuole dunque rappresentare la criminalità napoletana come qualcosa di sempre più giovane, quasi che l’imbarbarimento sia da rintracciare nel superamento degli “insegnamenti” ricevuti. Il Barracano di Di Leva (la cui interpretazione convince poco, purtroppo, al contrario di uno straordinario Roberto De Francesco nella parte del dottore) è nerboruto, minaccioso, violento anche quando non usa violenza, sibillino. Tutt’altra materia rispetto al testo teatrale.

Ma Martone, nel prendere gradualmente le distanze dall’originale (e nel finale questo porterà a una soluzione narrativa creata ex novo e francamente difficile da comprendere, sulla quale si tornerà più avanti) sembra quasi intimorito, come se si rendesse responsabile di una lesa maestà. Resta dunque nei recinti, sempre stretti e quasi sempre assai scomodi, del teatro filmato. L’utilizzo della scena, anche quando fa sfoggio della possibilità di eludere dalle logiche dello spazio chiuso – Barracano che accompagna il panettiere Arturo Santaniello sul terrazzo della sua abitazione per mostrargli fin dove arrivano i suoi possedimenti e fargli comprendere, tra le righe, il potere di cui è investito e che può esercitare – è lì a ricordare il ruolo primario della scenografia, la quinta, lo spazio scenico come luogo chiuso in sé. Non sfugge, Martone, a questo. Non gli riesce – o forse non gli vuole riuscire – la lezione di libertà e di reinvenzione dello spazio che fu uno degli aspetti rivelatori e deflagranti di Teatro di guerra. E non sfugge nemmeno al testo, che rivendica la propria imponenza rispetto alla sua “riduzione” proprio quando il regista aggiunge dettagli che non sono in scena, ma solo suggeriti o raccontati, nella versione di De Filippo. In questo senso l’incipit, che mostra sia l’attacco subito da donna Armida – la moglie del “sindaco” – da parte di uno dei due mastini che difendono la magione, sia la scaramuccia che porta ‘o Nait a sparare a Palummiello, appare quasi pleonastico e sicuramente inessenziale, quasi a dover sottolineare la differenza tra teatro e cinema. Ma filmare il teatro è filmare la vita? Perché l’impressione è che a tratti la scena diventi per Martone un rifugio, una cella/culla nella quale prendere le distanze dal reale di fatto fingendo di metterlo in scena.
Il punto è che non esiste la Napoli de Il sindaco del rione Sanità. Non più. Era vecchia già all’epoca di De Filippo, e lui stesso non a caso ne raccontava la morte. Volerla attualizzare potrebbe essere un atto di coraggio, ma allora sarebbe servita una totale devastazione dell’origine, così profonda da rischiare in ogni caso di snaturare il tutto. Invece Martone segue il testo per poi cercarvi all’interno degli spiragli che gli concedano l’occasione di sviare; in questo modo rimane intrappolato in un’evidente irrealtà che non si fa cinema e allo stesso tempo non è in grado di confermare il reale né di confutarlo.

In questo senso la chiave del discorso è da rintracciare nella soluzione narrativa finale che di fatto smentisce il testo di partenza per muoversi in direzione opposta. Gli appassionati cultori della lotta allo spoiler (la caccia alle streghe contemporanea) forse non perdoneranno ciò che qui segue, ma è indispensabile entrare nel dettaglio. Ne Il sindaco del rione Sanità di Eduardo De Filippo alla morte di Antonio Barracano il suo fido dottore decide di non seguire alla lettera i dettami lasciatigli come testamento dal “sindaco”. Non si presterà alla finzione, non affermerà che Barracano è morto d’infarto. Racconterà la verità, l’omicidio da parte del panettiere. Scatenerà una guerra fratricida nel rione. Perché solo così “Può darsi che da questa distruzione viene fuori un mondo come lo sognava il povero don Antonio, «meno rotondo ma un poco più quadrato»”. Una scelta politica fortissima, che preferisce una guerra alla mediocrità del presente. Una scelta che il dottore fa conscio del suo grado di utopia. Il dottore interpretato da De Francesco nel film di Martone, al contrario, non fa che ribadire quel che gli è stato imposto dal morente Barracano. Si può discutere a lungo sulle motivazioni di Martone: si vuol suggerire l’impossibilità di trovare una morale nella Napoli di oggi, a qualsiasi livello e a ogni condizione? Nella farraginosità di una simile scelta c’è tutta l’indecisione di un’operazione che si pretende più coraggiosa di quel che riesce effettivamente a essere. Là dove in Noi credevamo Martone riusciva a trascendere l’epoca della narrazione trovando le traiettorie storico-politiche per far riverberare il Risorgimento in ciò che venne un secolo più tardi – dapprima la lotta di liberazione dal nazifascismo, quindi gli Anni di Piombo – qui tutto ciò non avviene. Il testo originale, sbugiardato proprio sul finale, diventa corpo inerte, privo di una propria voce contemporanea. E la messa in scena di Martone, immobilizzata nella cristologica ultima cena del “sindaco”, sembra suggerire l’impotenza della Settima Arte di fronte al proscenio. L’ultima sconfitta di Barracano non è la morte, ma l’immobilismo della morte.

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Il trailer de Il sindaco del rione Sanità.

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