Viridiana

Viridiana

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Viridiana, che ottenne la Palma d’Oro al Festival di Cannes, fu il film con cui il regime franchista permise a Luis Buñuel di tornare a girare in Spagna dopo anni di esilio. Il regista sfrutterà l’occasione concessagli per dirigere un film sistemico e stratificato sull’inutilità e il danno delle religione, e al tempo stesso sull’apparenza del cambiamento storico, sulla vacuità delle forme padronali che si susseguono l’una con l’altra senza progresso umano. Accusato di blasfemia e censurato in Spagna, venne duramente attaccato anche dal Vaticano.

Le disavventure della virtù

Viridiana sta per prendere i voti e diventare suora di clausura quando suo zio, il ricco Don Jaime, la chiama a sé per incontrarla un’ultima volta. La ragazza ne farebbe a meno, ma la Madre Superiora la spinge ad assecondare la richiesta del parente, che del resto ha sempre provveduto al suo mantenimento. Mal volentieri Viridiana obbedisce e si reca dallo zio che per lei – che gli ricorda la defunta moglie – nutre attenzioni poco spirituali e vorrebbe trattenerla a restare da lui… [sinossi]
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Dopo anni di esilio e in seguito al successo di un film profondamente spirituale come Nazarín (1958) Luis Buñuel riceve dal regime franchista la possibilità di tornare a girare in Spagna e finanziamenti per il suo nuovo lavoro. La risposta del regista è Viridiana, co-produzione ispano-messicana che vincerà la Palma d’Oro al festival di Cannes nel 1961 ma che non piacerà per nulla al Paese natale di Buñuel: l’uscita del film fu proibita dal regime e il direttore generale della cinematografia spagnola venne defenestrato. In effetti è difficile trovare, pur nell’ampia e densissima carriera del genio di Calanda, film più sistemico e stratificato sull’inutilità e il danno delle religione e al tempo stesso sull’apparenza del cambiamento storico, sulla vacuità delle forme padronali che si susseguono l’una con l’altra senza progresso umano. Considerato blasfemo e sacrilego anche dall’Osservatore Romano, dunque da un “canale” ufficiale della Chiesa Cattolica, rivisto a quasi 60 anni di distanza Viridiana si conferma un film radicalmente feroce sulla carità cristiana, ma anche il più crudele del regista rispetto alla povera gente, agli strati più umili della società, messi in scena come mostri immondi lontanissimi per esempio dallo sguardo brutale ma umanista de I figli della violenza (1950). Non c’è nulla a cui aggrapparsi nel complesso dipanarsi della vicenda di Viridiana, ma come sempre in Buñuel c’è molto da capire e c’è anche di che divertirsi.

Ritornello con variazioni

Dal punto di vista strutturale il film è soavemente bipartito. La prima scena, subito dopo le note dell’Hallelujah di Händel, si svolge nel chiostro in cui la quasi novizia Viridiana (la bellissima Silvia Pinal che l’anno dopo troveremo anche ne L’angelo sterminatore) parla con la Madre Superiora: questa sta consigliando la giovane di assecondare la richiesta di suo zio, il ricco possidente terriero Don Jaime (Fernando Rey), di incontrarla un’ultima volta prima che lei diventi suora di clausura. La ragazza, cui lo zio ha provveduto al mantenimento nel corso degli anni, cerca di opporre resistenza (“Il mio desiderio è di non vedere più il mondo”) ma pur mal volentieri alla fine accetterà di trascorrere qualche giornata con lui, nella sua fazenda in declino, un latifondo che egli vuole improduttivo, da cui non esce mai ma che gli consente di vivere in totale isolamento dalla società. Soave il regista è anche nel parallelismo tra la prima scena e l’arrivo di Viridiana da Don Jaime: la macchina da presa segue le due suore che camminano inquadrate in primo piano, poi segue la protagonista e suo zio camminare ma inquadrando dapprima i loro piedi per poi spostarsi sui volti. La ragazza infatti tace inizialmente il suo disappunto nel trovarsi da Jaime, ma poi cede e lo confessa perché – come ripeterà più volte – non riesce a mentire. Almeno questo è quanto crede lei. Dopo questo raddoppio di passeggiate in cui la quasi suora cerca di dissimulare il proprio volere, comincia un assedio fitto di segni e simboli: è quello di Jaime a Viridiana, la nipote identica alla moglie defunta la prima notte di nozze. Lo zio, in realtà, vuole legare a sé la congiunta, strappandola alla promessa di “darsi a Dio”: non riuscendoci attraverso un normale convincimento dialettico, finirà per drogarla e portarla nel proprio letto. Non la violerà, sebbene la donna sia addormentata, ma all’indomani le farà credere di averlo fatto e di conseguenza di aver perso la verginità al fine di forzarla ad abbandonare l’idea claustrale, insinuando il peccato carnale. La giovane però non demorde e se ne va, diretta all’isolamento/matrimonio con Dio. Ma Viridiana verrà richiamata subito alla tenuta: suo zio si è impiccato. Umiliato e senza più speranza lui, in preda al senso di colpa lei: la ragazza decide di “espiare” non prendendo i voti ma restando nella grande villa con un piano però ben preciso. A metà film scompare uno dei protagonisti e la storia vira inaspettatamente altrove, quasi come in Psycho. Ricomincia infatti il film, attraverso una nuova scena che però richiama la prima: all’inizio eravamo nel sereno chiostro delle Sorelle, ora in una simmetrica piazza percorsa dai poveri del contrado che Viridiana sta chiamando a sé. La ragazza ha infatti deciso di usare i mezzi del parente per essere caritatevole con i più bisognosi e ospitarli nella magione. Sono mendicanti, senzatetto, zoppi storpi ciechi, puerpere con figli urlanti, orrende donne pregne di pochi mesi, nani, sdentati, malati forse lebbrosi che neanche in un dipinto di Bruegel. Tutti assieme vivranno nella grande casa dove dovranno trovare qualche minima occupazione (tipo dipingere quadretti religiosi o ramazzare in giardino) per avere uno scopo quotidiano, anche se la cosa che non li rende affatto felici. In fondo vogliono solo mangiare e bere. Il piano di Viridiana si “scontra” però con quello del defunto zio, che prima di morire ha richiamato a sé il figlio illegittimo di cui non si è mai occupato destinandogli la fetta più cospicua dell’eredità. Il quadretto degli orridi monatti messo assieme dalla suora mancata, si arricchisce di un nuovo ospite: il figlio Jorge (Francisco Rabal), un giovane maschio virile che vorrebbe rendere finalmente produttivi i terreni e dotare per lo meno la dimora dell’elettricità. Una ventata di modernità – ferme a un tempo cristallizzato, la casa e le abitudini religiose non ci fanno comprendere bene in che anni siamo – che mal convive con un rifugio caritatevole per piccoli criminali e poveri abbietti. Le cose precipitano quando Jorge e Viridiana, assieme alla serva Ramona (Margarita Lozano) che con Jorge ha già iniziato una relazione carnale, devono assentarsi per andare a firmar carte dal notaio, lasciando soli i vagabondi raccattati in paese. Finiranno per profanare la casa padronale, allestendo un banchetto incredibile che è una delle punte del cinema di Buñuel (e quindi del cinema), che fa il verso all’Ultima Cena leonardesca, in cui uno sdentato balla l’Hallelujah vestito da sposa, un cieco fa il Cristo che alla fine spacca tutto con un bastone mentre la situazione precipita in amplessi osceni dietro a un divano sui sono gettati lattanti urlanti. Tornati a casa i padroni, Viridiana rischierà di essere stuprata dallo stesso zoppo che avrebbe voluto disegnarla come madonnina ma verrà salvata da Jorge. E questo gesto cambierà ogni cosa. Superata la buriana, scappati gli orrendi poveri, l’elettricità arriva in casa e a Viridiana non resterà che prendere atto di un fallimento su tutta la linea mentre si siederà a giocare a carte col cugino e il giradischi suona Shimmy Doll di Ashley Beaumont.

Senza redenzione, né umana né celeste

Sono rari i film che, quanto Viridiana, tengono costantemente e così magistralmente in piedi due linee di significato nascoste l’una nell’altra e in cui tutto quello che vediamo è “doppio” (in questo l’unico paragone possibile è con Alfred Hitchcock). Il lungo excursus sulla trama è partito proprio dall’assunto che il film a un certo punto ricominci da capo, alla presenza di un nuovo maschio più giovane e adatto alla protagonista, Jorge, e con la protagonista che cerca di riprodurre l’esperienza claustrale cui non ha più accesso (ha dopotutto indirettamente condotto lo zio al suicidio) nella casa che ha a disposizione, aprendosi al mondo come le è stato insegnato ovvero attraverso un’insulsa carità. Il crepuscolo degli idoli si accompagna a un apparente rinnovamento storico e il racconto della seduzione a una nuova presa del potere. Nella seconda parte del film Viridiana non riceve infatti più le attenzioni di un anziano, ma di suo figlio: se è indubbio lo zampino di Jaime nel mettere l’uno di fronte all’altra la madonnina e il suo “illegittimo”, probabilmente nel tentativo postumo di possedere la donna attraverso un sé più giovane c’è anche la consapevolezza del fallimento storico della figura di Jaime, latifondista che come la nipote – in questo hanno molto in comune – disprezza il mondo e non vuol far parte del suo divenire. Assieme non sarebbero andati molto lontano. L’istinto cristiano secondo Nietzsche sottende ripiegamento e odio per la vita, ma l’istinto socialmente conservativo di Don Jaime sottende a qualcosa di analogo: i sistemi umani per riprodursi, anche letteralmente (in fondo il film rappresenta una sacrilega trinità con padre, figlio e madonnina da deflorare), e quindi davvero conservarsi, hanno bisogno di cambiare, hanno bisogno dell’elettricità e del rock’n’roll. Senza scomodare Tomasi di Lampedusa, il film parla di religione, senza alcun dubbio, di occultamento psichico ma anche di “progresso” storico. In questa accezione, ci sono due raddoppi che vanno assolutamente considerati nella tessitura di Viridiana. Il primo è un dettaglio (ma questo capolavoro assoluto richiede attenzione a ogni dettaglio): Jorge, già insediatosi come nuovo “padrone” del latifondo, salva un piccolo cagnolino legato a un carretto che procede sulla strada ed è costretto perciò a correre sfiatato. Dando due soldi al suo padrone, seduto sul retro del carretto, Jorge è contento di aver soccorso una piccola vittima; peccato che, beffardamente, nella chiusura della stessa scena Buñuel ci mostri un altro identico carretto con un altro identico cane nella stessa situazione, ma questo cane non verrà salvato. Come sono vani i tentativi di Viridiana di raccattare casuali e orride creature umane dando loro un tetto e del cibo, così è vana la carità dei padroni nell’intervenire sulle realtà singolari senza porsi il problema dei sistemi complessivi. La carità è insomma l’abbaglio più potente e lo strumento più efficace del potere: lavando la coscienza a chi la pratica non sposta neanche di un millimetro le relazioni reali che generano l’ingiustizia. Il secondo raddoppio è nella costruzione di una sequenza, la più importante della seconda parte del film, che ancora meglio ci fa capire il doppio movimento di Buñuel: è il magnifico montaggio in parallelo in cui vediamo da una parte Viridiana nei campi mentre recita l’Ave Maria assieme ai suoi poveracci e dall’altra Jorge che dirige il lavoro dei nuovi salariati che ha assunto per portare avanti il latifondo. A ritmo sempre più sostenuto, ci viene mostrata una scena bucolica che richiama la cultura contadina e religiosa intervallata da elementi molto chiari del lavoro produttivo come la calce gettata per costruire o la legna tagliata. Due mondi, quello contadino/religioso e quello del lavoro salariato in cui il parallelismo messo in scena dal regista non è tra persone e persone, ma tra persone e oggetti, tra persone e prodotti del lavoro, dunque dalla persona all’alienazione. Buñuel mostra splendidamente, soprattutto in questa sequenza di una bellezza e di una raffinatezza incantevoli, quanto il percorso storico rappresentato dai tre personaggi tenda a riprodurre forme dell’ingiustizia. Se, come è evidente fin dal titolo, il fallimento più chiaro e lampante è quello della protagonista e della sua devozione cieca, il passaggio tra un patriarca e l’altro è un movimento apparente, che riconfigura diversamente le possibilità dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Implacabilmente e senza redenzione, né umana né celeste.

Una croce e (è) una lama

Il passaggio dalla tradizione religiosa alla modernità post-latifondista è un cambiamento che non scalfisce lo sfruttamento, ma è indubbiamente vero che per passare dall’Hallelujah al rock sia necessaria una società più secolarizzata. C’è infatti un aspetto per cui Jorge è differente e ha perciò assai più probabilità di farsi la cugina: Jorge non deve nascondere più di tanto i propri desideri in significanti alternativi, come invece fanno suo zio e Viridiana. Da questo punto di vista, la doppiezza degli oggetti è l’altro elemento che corre sotto traccia per l’ora e mezza del film e si può dire che culmini con l’ozioso ritrovamento di un crocifisso che in realtà è un coltellino portatile da parte di Jorge. Che lo guarda divertito. Una croce e (è) una lama. Don Jaime e Viridiana invece vivono di nascondimenti di pulsioni e verità impossibili da profferire. Bisogna riavvolgere il nastro e andare alla prima parte di Viridiana specie nella sequenza gotica – potrebbe essere il resoconto visivo di un racconto di Poe – che porta Don Jaime a vestire la nipote con il corredo nuziale della moglie defunta. Prima di farlo il sardonico Buñuel ci mostra Fernando Rey intento a provare le scarpe da sposa della morta e il suo bustino, in una scena dal sapore palesemente feticista che potrebbe farci pensare alla paura della castrazione e anche della prestazione; d’altro canto, nello stesso momento, il regista ci rivela una bizzarria della protagonista ossia il suo essere sonnambula, cosa che fa presentire una seconda “natura” sotto la prima, ben nascosta e sapientemente infagottata in buoni precetti. La Viridiana sonnambula raccoglie cenere dal camino e la getta sul letto dello zio, anche qui sottintendendo qualcosa che ha a che fare con la perdita della verginità, con il macchiare il talamo, ma anche con la morte. All’indomani della strana nottata, Don Jaime rivela il suo desiderio alla nipote chiedendole di fargli un dono: vestirsi con l’abito nuziale della zia. “Tua zia morì la prima notte di nozze tra le mie braccia con questo vestito e tu le somigli tanto”: frase che fa pensare che il matrimonio non sia neppure stato consumato e che il trauma di una virilità claudicante abbia qualche responsabilità nella scelta dello “splendido isolamento” dal mondo di Jaime. Il piano dello zio è però far addormentare Viridiana con un sonnifero, in una scena dai tratti davvero hitchcockiani ma anche favolistico/archetipici: dopo aver sbucciato una mela (sul cui simbolismo c’è poco da dire…) e averne mangiato uno spicchio assieme allo zio, la ragazza cade in una morte apparente come Biancaneve e qui il feticismo dello zio potrebbe avere la meglio. Ma, come appunto pareva rivelare la riverenza per le scarpe e il bustino, Don Jaime (forse impotente) non saprà approfittare di lei, come probabilmente non ha potuto “approfittare” della moglie. Anche Viridiana del resto nega tenacemente fino alla fine il proprio desiderio erotico e anzi punisce continuamente il proprio corpo dormendo sul legno, portando con sé una corona di spine – che alla fine verrà buttata a bruciare – tenendo i suoi bellissimi capelli coperti e legati, e spostando la propria mortificazione anche sugli “oggetti esterni” cui si sente immensamente superiore. Che siano lo zio, ma pure la Madre Superiora, o la sua covata malefica di mostri cui fa da madre, precettore, guida spirituale. Viridiana e Don Jaime, del resto, sono uniti dall’ipocrisia, dalla paura del corpo (nonostante quello di Silvia Pinal si mostri eroticissimo in un paio di momenti nel film), dall’abiura della vita e dal fatto che lui le abbia pagato gli studi religiosi, un dettaglio che non è per niente trascurabile. Se Jorge è il figlio illegittimo che viene “richiamato” dal suicida per terminare l’opera di deflorazione che a lui non è riuscita, Viridiana è una nipote/figliastra cui invece è stata pagata un’educazione repressiva che in ogni caso ben si addice a una futura moglie. L’erotismo scoperto di Jorge è ben diverso da quello morboso dello zio e della cugina: Jorge arriva con un’amante, poi si congiunge con la serva Ramona, pur bramando soprattutto Viridiana. Jorge del resto non ha alcuna remora a scoprire tutto ciò che è nascosto in casa: il materiale per costruire, tenuto in soffitta, ma pure gli oggetti dello zio tra cui appunto il crocifisso/coltello. La doppiezza degli oggetti, delle pulsioni celate, dei gesti, l’occultamento persino delle cose nei luoghi segreti, trova in effetti nel giovane e secolarizzato Jorge uno scoglio. E se la mirabile battuta finale (“Non mi crederete, ma la prima volta che vi ho visto ho pensato: mia cugina Viridiana finirà a giocare a carte con me”) è essa stessa un doppio senso per dire che Jorge ha sempre pensato che sarebbe riuscito a portarsi a letto la cugina, è altresì evidente che le pulsioni troveranno un terreno più fertile nel mondo moderno che non nel mondo religioso o nel conservatorismo antiquato e ormai inadatto. “Non mi crederete, ma la prima volta che vi ho visto ho pensato: mia cugina Viridiana finirà a giocare a carte con me”, una situazione che incredibilmente riporta alla mente il finale de L’appartamento con Miss Kubelik e C. C. Baxter. Ma in Viridiana a giocare a carte sono in tre: Jorge, Viridiana e Ramona. Il nuovo mondo è in tavola, ma non ha nulla di romantico, ben poco di amoroso, molto di padronale, anche se in questa nuova versione il proprietario è giovane, desiderabile, ha già pronta una moglie devota e religiosamente istruita e un’amante popolana e ricattabile, porta musica ed elettricità, scaccia i parassiti e li rende salariati.

Che tutto questo potesse essere inteso anche come una critica alla Spagna franchista, che negli anni Sessanta voleva rifarsi un po’ il look e stare più al passo con i tempi, è evidente dalla reazione del regime. Ma oltre a questo dato storico, nella filmografia di Buñuel Viridiana resta una sintesi probabilmente inarrivabile tra una feroce critica del presente, una riflessione sulla Storia, la rappresentazione delle fondamenta inconsce del conservatorismo religioso e gli inganni dell’emancipazione della modernità. Le classi dominanti resteranno tali, cambieranno le proprie modalità dell’immaginario e la morale cristiana perderà centralità, ma è servita a reggere una società repressiva e sicuramente servirà sotto altre forme al perbenismo borghese che si affaccia. Il desiderio di penetrare una bionda e algida novizia, come il desiderio di possedere la Madonna vincendo la divinità, è in fondo portato a compimento da una nuova generazione che usufruisce più efficientemente delle proprietà ereditate dalla precedente, superata e stanca anche nella virilità necessaria a imporsi. Mentre i servi di casa resteranno fedeli e i mostri, là fuori, saranno tenuti a debita distanza o si trasformeranno in lavoratori, di cui neppure ci interesseranno più i volti deformati quanto piuttosto il prodotto materiale della loro intercambiabile opera. Viridiana, se possibile il capolavoro di Luis Buñuel.

Info
Il trailer di Viridiana.

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