I nostri anni

I nostri anni

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Lungometraggio d’esordio di Daniele Gaglianone, I nostri anni è un film sulla Resistenza e sulla memoria della lotta partigiana, che si basa su uno snodo morale cruciale a distanza di cinquant’anni dai fatti, sui sentimenti dei reduci nei confronti degli aguzzini fascisti. Presentato al Torino Film Festival e alla Quinzaine des Réalisateurs.

Nome di battaglia: Silurino

Alberto e Natalino sono due anziani che hanno partecipato alla Resistenza come partigiani nelle valli piemontesi. Con loro c’era anche Silurino, pseudonimo di battaglia come tutti gli altri, che cadde vittima delle brigate nere, ucciso dopo orribili sevizie. Natalino vive ancora in montagna, in una baita isolata, mentre Alberto, vedovo, trascorre l’estate in una pensione, dove fa amicizia con Umberto, un anziano disabile in sedia a rotelle, che poi riconosce come quel gerarca fascista che, con i suoi miliziani, aveva ucciso Silurino. [sinossi]
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Buoni o cattivi, ricchi o poveri, sono tutti uguali ora: è la celebre frase con cui Kubrick mette una pietra tombale sul Settecento. Possiamo fare lo stesso su eventi storici molto più recenti come la Resistenza al nazifascismo, la guerra partigiana e la liberazione che rappresentano un atto fondante della nostra Repubblica? Negli anni recenti sono riemerse ipotesi revisioniste, riconciliatorie mentre i testimoni e i protagonisti sopravvissuti di quei fatti sono sempre di meno con il lento dissolversi della memoria viva che rappresentano. Quale atteggiamento avere nei confronti di eventuali criminali di guerra superstiti, altrimenti definiti i vinti, ora ridotti a innocui vecchietti?

Su questo dubbio morale si fonda I nostri anni (2000), lungometraggio di esordio di Daniele Gaglianone che affronta i temi della Resistenza e della memoria, non limitandosi alla documentazione o all’agiografia dei partigiani. Si tratta di un dilemma morale che probabilmente ha perseguitato nella propria vita i reduci della Resistenza, che si saranno confrontati con un senso di pietà per le proprie vittime. Il partigiano Giulio Questi arriva a sviscerare, magistralmente, questo sentimento da ultraottantenne nel suo corto digitale Visitors. I nostri anni nasce a seguito del lavoro di Daniele Gaglianone per l’Archivio nazionale cinematografico della Resistenza, durante il quale partecipava come operatore in videointerviste a vecchi partigiani, cui rivolgeva sempre la domanda fatidica sul come si sarebbero comportati se avessero incontrato, a distanza di cinquant’anni, una delle belve fasciste, uno dei loro nemici che poteva aver ucciso barbaramente i loro compagni. Questa scena primaria è riprodotta nel film, nel momento in cui una troupe intervista Natalino (in realtà si chiama Pasquale ma nel film sono mantenuti i nomi di battaglia) che vive da eremita nella sua baita in mezzo ai boschi.

I nostri anni si fonda su questo elemento narrativo dell’incontro casuale, in un contesto pacifico e anche piacevole, di villeggiatura, di chi viene riconosciuto come un aguzzino di guerra, ora ridotto in uno stato fisico di debolezza, che fa risvegliare un passato drammatico, in realtà mai sepolto. È il nucleo per esempio di La passeggera di Andrzej Munk o di Tras el cristal di Agustí Villaronga. I nostri anni è un film dalla struttura complessa che si basa, per i primi due terzi, su tre linee narrative in parallelo, seguendo singolarmente i due reduci della Resistenza che vengono alternate alle scene della memoria, della guerriglia nei boschi di montagna, delle nefandezze compiute dai repubblichini. Le tre linee possono essere raccordate con montaggio connotativo, passando da Natalino che non ricorda, durante l’intervista, quale fosse il vero nome di Alberto, ad Alberto (svelando così il legame tra i due) che parla di calcio con l’amico non ancora riconosciuto nella sua identità, ai partigiani nel bosco che parlano di calcio. Oppure si passa dal discorso sulle diverse modalità, tra partigiani e fascisti, di uccidere i prigionieri, all’ex-partigiano e all’ex-fascista che parlano di quella località come luogo ideale per la propria sepoltura, confluendo poi nella terribile scena dell’esecuzione del partigiano. Le due narrazioni del presente confluiscono quando Alberto si accorge che quell’anziano signore in sedia rotelle che ha conosciuto, altri non è che la belva fascista Umberto Passoni, e corre dal suo vecchio compagno Natalino, rivelando così anche una vicinanza geografica tra i due, per pianificare quella vendetta covata per tutta la loro vita.

Altrettanto complesso e diversificato è il discorso fotografico, opera del direttore della fotografia Gherardo Gossi, costruito su grane diverse di pellicola in bianco e nero, a partire da quelle, più sgranate e girate con macchina a mano, a volte nevrotica, a volte impazzita, a volte con ulteriori viraggi nel bianco, dei ricordi di guerra, uno spazio ormai onirico, o fiabesco, in quel bosco di betulle bianche del Canavese. Uno spazio mentale, della memoria, che può risucchiare i protagonisti, fino al punto di ritornarvi da vecchi, di occupare quei loro incubi. Una natura, che è uno spazio di guerra, ma anche di libertà, come sottolinea Natalino, e che è protagonista del film, anche nelle parti del presente, con quei luoghi di montagna. Una natura che rappresenta un teatro indifferente alle vicende umane che nel suo palcoscenico si svolgono, che non lasceranno traccia.

Per contro c’è la grana da intervista televisiva, con la relativa fissità delle inquadrature, di tutte le scene di Natalino. A lui è affidata la parte più esplicita, o didascalica, sui sentimenti dei partigiani, sulle motivazioni che, da ventenne, lo spinsero ad abbracciare le armi, sul senso di colpa di essere sopravvissuto, per sbaglio, e sulla disillusione di quello che è diventato il paese per cui ha combattuto e rischiato la vita. Con aria energica, dignitosa, fiera quanto cinica, con il suo bicchiere di vino rosso, Natalino racconta per esempio di un processo intentatogli negli anni Cinquanta da un ex-repubblichino che lo accusava di avergli rubato delle piastrelle in casa durante la guerra. Sarà lui, in questo contesto, a dare una prima risposta al dilemma centrale nel film. I morti saranno anche tutti uguali, ma non lo sono i moribondi, e mentre i partigiani uccidevano i fascisti con una fucilata secca, i secondi ammazzavano i primi solo dopo inenarrabili sevizie e torture. Ma l’anziano uomo conclude, alla fatidica domanda, che se incontrasse ora uno dei suoi nemici non se la sentirebbe nemmeno di dargli più neanche un calcio nel culo, tanto sono solo dei vecchi. Posizione che poi ribadisce ad Alberto che invece è determinato a uccidere l’ex-repubblichino.

L’ultima parte di I nostri anni è costruita come un film di genere, o la parodia di un film di genere, con i due vecchietti, che fanno anche fatica a capire il funzionamento di un distributore automatico, che pianificano un omicidio. Ci sono qui anche risvolti da suspense hitchcockiana, come quando i due bucano e vengono aiutati dai poliziotti che aprono il loro baule, per prendere la ruota di scorta, frugando proprio dove hanno nascosto la pistola. Quasi un breve road movie in un mondo, per il quale hanno combattuto, governato dalla meschinità, come quella del giovane impaziente che aspetta al distributore apostrofandoli come vecchietti imbranati. Azione che si conclude nella loro irruzione con montaggio ritmato con la canzone “Ti ho visto in piazza” del gruppo punk-rock torinese dei Truzzi Broders, momento in cui si vede l’impronta del brillante montatore Luca Gasparini, memore del suo lavoro per Tutti giù per terra di Davide Ferrario.

Fondamentale nel film – con involontaria somiglianza con il cinema di Lav Diaz, autore che pure ha ricostruito momenti di resistenza nella foresta – il discorso sui meccanismi interni di riproduzione dell’immagine, come nelle riprese televisive, e le immagini sospese, i quadretti, le fotografie della Resistenza, che riproducono come quadri interni i momenti di flashback. I nostri anni si conclude con un nuovo epitaffio, nel momento in cui si ricongiungono, anche fotograficamente, passato e presente, vivi e morti: «I nostri anni sono passati come una storia che ci è stata raccontata e il luogo dove accaddero queste cose non ne serberà traccia».

Info
Un’intervista a Gaglianone su I nostri anni su YouTube.

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