Post Mortem

Post Mortem

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Presentato all’interno della ventesima edizione del Trieste Science+Fiction Festival, Post Mortem di Péter Bergendy è un horror che vive di espedienti noti ma che si innesta perfettamente nel contesto sociale e storico dell’Ungheria.

La morte nella Storia e la Storia nella morte

Prima guerra mondiale. Thomas rimane ferito gravemente in seguito all’esplosione di una granata. Creduto morto, viene gettato in una fossa comune. Si risveglia in tempo per essere salvato. Qualche tempo dopo, in piena influenza spagnola, fotografa i morti con i parenti. Un lavoro che desta interesse ma che gli permette di vivere più che bene. Almeno fino a quando non viene chiamato a fotografare i morti di un piccolo paese dove, a quanto pare, gli spiriti dei morti sono più attivi del previsto. Lì legherà con la giovane orfanella che lo aiuterà a risolvere il mistero… [sinossi]

Nell’Ungheria di Orban, Post Mortem potrebbe facilmente assumere significati politici rilevanti. Ma sarebbe una forzatura dare una lettura politica a un horror che, innanzitutto, lavora sulla gestione della suspense e dei meccanismi orrorifici con estrema efficacia.
Péter Bergendy, autore che si muove spesso in contesti di genere, ispirandosi al cinema che ama di più, con particolare fascinazione verso il cinema statunitense, ha con Post Mortem l’occasione mettere in scena un horror che affonda le proprie radici in quello etereo e astratto del primo Shyamalan, o dell’Amenabar di The Others. Da un punto di vista meramente intrattenitivo, funziona.

Un’oscura tensione vibra per tutta la pellicola, culminando in picchi ben posizionati narrativamente, dove il salto sulla poltrona è sì strategico ma anche ben orchestrato. Un orrore che si muove spesso negli anfratti scuri dell’immagine, nelle retrovie, su uno sfondo che, contemporaneamente, ci tiene a raccontare un Ungheria devastata dalla guerra e dalla spagnola, dove i morti sono corpi impossibili da sotterrare a causa del terreno ghiacciato.
I morti e le ombre: entrambe sono presenze con cui fare i conti, con cui convivere in una Storia dove l’uomo si confronta quotidianamente con la tragedia e l’orrore. Leggerci un modo per interpretare la deriva nazionalista e populista orchestrata da Orban è, probabilmente, una forzatura, ma quei morti e quegli spiriti inquieti sembrano essere il riflesso retrodatato di un presente altrettanto tormentato.

Ottimo il comparto tecnico: l’architettura sonora, la fotografia desaturata di Andràs Nagy, capace di rendere funzionale lo sguardo sull’abisso di Bergendy, le interpretazioni dei vari attori, tra cui spiccano quelle del protagonista e soprattutto della giovane Fruzsina Hais.
L’orrore di Bergendy emerge su due fronti e funziona, nonostante qualche limite – tra cui un’eccessiva durata dovuta alla reiterazione narrativa che, alla lunga, stanca. L’idea del connubio indissolubile fra Storia e Morte, legame all’interno del quale si colloca con valenza significante l’idea della riproduzione fotografica, che è la morte della realtà. Thomas è colui in grado di addentrarsi nell’orrore proprio per la sua capacità di riprodurre il reale, di fissarlo e, in questo modo, di ucciderlo. La fotografia e il cinema come strumenti di morte del reale. O di sublimazione. E, soprattutto, la convinzione di lavorare sull’immagine per generare la tensione orrorifica. L’immagine assume dunque una sua oscura epicità, che aumenta lo stato di inquietudine che, nella periferia campagnola dell’Ungheria, cioè quel luogo dimenticato dalla Storia, avvolge tutto e tutti.

Info
La scheda di Post Mortem sul sito del Trieste S+F Festival.
Il trailer originale di Post Mortem.

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