Botox

Film trionfatore del concorso di Torino 38, Botox rappresenta l’esordio al lungometraggio di finzione per l’iraniano Kaveh Mazaheri che racconta il proprio paese in una fase particolarmente caotica e conflittuale, sospeso tra obblighi religiosi e modernità, narcotraffico e fuga all’estero, tra le ferite ancora aperte del regime dello scià e le vessazioni della teocrazia.

Il sapore dei funghi

Akram e Azar sono sorelle che vivono, con il fratello Amed, in una tipica casa iraniana con cortile. La prima soffre di deficit mentale, la seconda lavora in un centro di chirurgia estetica. In combutta con un sedicente ingegnere decidono di intraprendere un’attività clandestina di coltivazione di funghi allucinogeni. Mentre sono sul tetto, Akram, in uno scatto d’ira, sferra un calcio al fratello che cade e muore. Le sorelle dovranno occultare il cadavere e mentire sulla scomparsa di Amed, dicendo a tutti che è fuggito in Germania. [sinossi]

Abbas Kiarostami è stato un grande cantore dei paesaggi iraniani, quelle lande desolate e brulle, quei territori estremi percorsi e scandagliati dai suoi personaggi (per esempio quelli di Il sapore della ciliegia) in automobile, su stradine sterrate. Un simile viaggio nel paesaggio iraniano è quello che percorrono Akram e Azar, le due sorelle protagoniste di Botox, il film vincitore del concorso di Torino 38, esordio al lungometraggio di finzione per Kaveh Mazaheri. Stavolta il viaggio non è alla ricerca di qualcuno che possa occuparsi della propria sepoltura, come nel film di Kiarostami, ma di seppellire un cadavere senza che nessuno lo scopra. Le due sorelle cercano di occultare il corpo del fratello morto a seguito di una caduta dal tetto causata da un calcio per uno scatto nervoso di Akram, che soffre di disturbi mentali, dopo che lui l’aveva schernita. In un primo momento fanno una buca nel giardino di casa, in quel cortile tipico delle case borghesi iraniane, delimitate da mura alte, che pure si vedono in molti film. Mura che peraltro dovranno proteggere un’altra attività illecita, ovvero la coltivazione di funghi allucinogeni. Ma le sorelle, in realtà Azar, quella in grado di riflettere e pianificare una via d’uscita, optano per il seppellimento in un luogo lontano e remoto. E, in questo senso, Kaveh Mazaheri opta per Kiarostami rispetto a Hitchcock, rispetto al thriller con cadavere ingombrante in prossimità, stile Nodo alla gola o La congiura degli innocenti. E la destinazione del corpo sono le sterminate distese algide del lago salato di Hoz-e Soltan, un paesaggio estremo che rappresenta anche una grande ferita nella travagliata storia del paese perché in quelle acque finivano anche i corpi dei desaparecidos, eliminati dalla Savak, la polizia segreta dello scià. Lo stesso Amed, raccontando questo fatto alle sorelle, come anche a dei turisti tedeschi cui faceva da guida, ha suggerito loro involontariamente il suo luogo di sepoltura. Nel cruscotto della macchina usata dalle due donne per trasportare il cadavere si intravede un ritratto del popolarissimo generale Soleimani, ucciso in un raid americano. Immagine difficile da interpretare ma comunque segno del nuovo potere saldo nel paese.

Nella teocrazia iraniana, com’è noto, vige la shari’a con l’imposizione alle donne del velo islamico, l’hijab o lo chador. Nel film la copertura della chioma femminile svolge varie funzioni. Anzitutto spicca l’immagine in un poster di una donna senza velo nel centro di chirurgia estetica dove lavora Azar, quasi una dimensione parallela, di stampo occidentale, dove si promette l’eterna giovinezza con l’iniezione di botox che elimina le rughe, generando delle bambole, con le clienti che seguono Instagram. Un elisir che è un po’ l’equivalente delle droghe allucinogene che vogliono produrre i protagonisti nella loro casa. E l’assenza di velo diventa anche un segnale straniante nella bellissima scena onirica in cui Akram, credendo di seguire il fratello, si ritroverà a Berlino, con la transizione nel mercato all’aperto dove le donne cominciano ad avere una chioma libera. Un campo controcampo segna la barriera tra realtà e sogno, e la protagonista cercherà di strappare il velo a quella donna che aveva trasfigurato nella sua mente come tedesca. La regista Samira Makhmalbaf, parlando della condizione femminile nel suo paese, usava la metafora dell’acqua che sgorga da una sorgente bloccata dalla pressione di una mano, che genererà un’energia sempre maggiore a contrasto fino a che l’acqua non riprenderà a zampillare. Nell’aggressione del fratello si cela una reazione al sistema patriarcale, e la stessa condotta successiva delle sorelle, quella di non denunciare l’accaduto che verrebbe considerato un incidente anche in considerazione della condizione mentale di Akram, rivela la loro paura di non essere credute in quanto donne. Finanche il bambino in famiglia, come già consapevole del suo futuro ruolo dominante, si diverte a malmenare Akram.

Botox racconta di queste contraddizioni di un paese lacerato, dalle innumerevoli spinte centrifughe. Un paese dove è fiorente il mercato di droga e la famiglia dei protagonisti vuole entrare nel business come fosse un’attività qualsiasi, senza dare troppo conto alle possibili ripercussioni. Visto che quello che si rischia rimane costante, tanto vale osare di più e correre il pericolo con un grande giro d’affari. C’è poi l’emigrazione verso i paesi europei, per cui non è poi così strano che qualcuno sparisca senza lasciare traccia, per tenere nascosto il suo movimento alle autorità. Un flusso di clandestini che, come si dice nel film, rischiano di affogare attraversando il mare ammassati su precari gommoni. Un paese infiltrato ormai dalla cultura pop americana, come tutto il mondo del resto. Lo dimostrano la t-shirt di Batman indossata da un bambino, l’albero di Natale e i cartoon di Willy il Coyote e Beep Beep che vede Akram forse immedesimandosi nell’imprendibile uccello che riesce sempre a eludere le aggressioni del canide. La famiglia protagonista di Botox è rappresentativa metaforica della condizione del popolo iraniano, con il maschio nel ruolo dominante, una donna che cerca l’emancipazione nella modernità mentre la povera Akram rappresenta la parte più debole e sottomessa del popolo. Vivono in una elegante dimora, con arredi di lusso, di tappeti così come è antica la cultura persiana, isolata dall’esterno da grandi mura. Ma è una casa che fa acqua da tutte le parti, dove cadono gocce dal tetto . E pure la macchina è guasta, deve essere spinta a mano.

Al suo esordio al lungometraggio di finzione, Kaveh Mazaheri, che ha all’attivo cinque cortometraggi e una ventina di documentari spesso incentrati sulla condizione femminile in Iran, si mostra capace di preziosismi e raffinatezze di regia. Basta pensare a quel momento onirico di cui sopra, tutto giocato su sfocature di movimenti di macchina velocissimi, montaggio ipercinetico, mdp mai salda; a quella composizione dell’immagine dopo la morte di Amed, dove le due sorelle sono in due stanze adiacenti separate da un muro come uno split screen, Azar che tira fuori il cadavere dall’armadio e Akram che si cambia le calze come se nulla fosse accaduto. E poi la scena madre, sul tetto, di Akram che fa cadere il fratello, con una lunga inquadratura fissa in campo lungo, dove il gesto della donna è uno scatto di energia improvviso e inaspettato. Come Alessandro che spinge nel burrone la madre in I pugni in tasca, o come Louise di Thelma & Louise che spara all’uomo che le sta importunando, mentre le successive azioni di fuga di Akram e Azar suonano come equivalenti femministi del celebre film di Ridley Scott.

Info
La scheda di Botox sul sito del Torino Film Festival

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