La censura che visse due volte
Nel giorno di Pasquetta il Ministro della Cultura Dario Franceschini ha annunciato con toni trionfali l’abolizione della censura, mettendo in pratica un punto già previsto dalla Legge Cinema n. 220 del novembre 2016 che disciplina il mondo del cinema e dell’audiovisivo. Ma un passaggio di questo tipo resta rivoluzionario solo sulla carta: mentre c’è chi festeggia l’ipotesi di una produzione in massa di novelli “ultimi tanghi”, Salò e Totò, ignorando un sistema di mercato che spinge da anni all’autocensura, lo Stato attribuisce la responsabilità della “classificazione” dei film alle stesse produzioni e distribuzioni, senza che nei fatti cambi granché.
Nella seconda Pasquetta trascorsa in epoca pandemica, il Ministro della Cultura Dario Franceschini ha annunciato, con tanto di comunicato stampa apposito: «Abolita la censura cinematografica, definitivamente superato quel sistema di controlli e interventi che consentiva ancora allo Stato di intervenire sulla libertà degli artisti». La notizia è rimbalzata dalla velina del MIC alle redazioni di giornali e telegiornali, passando ovviamente per i social network, e ha sollevato per lo più grida di giubilo, legate all’idea che d’ora in avanti i vari Ultimo tango a Parigi, Salò o le centoventi giornate di Sodoma e Totò che visse due volte non correranno più il rischio di vedere la scure della censura abbattersi sui fotogrammi. La serata televisiva giornalistica si è chiusa con Maurizio Mannoni che aprendo Linea Notte rimandava alla sequenza conclusiva di Nuovo Cinema Paradiso affermando “certe cose non capiteranno più”.
La legge Franceschini, che regolamenta il mondo del cinema e dell’audiovisivo, è entrata in vigore il giorno 11 dicembre del 2016. L’Articolo numero 33, vale a dire “Delega al Governo per la riforma delle disposizioni legislative in materia di tutela dei minori nel settore cinematografico e audiovisivo” si sviluppa in due punti, il primo dei quali segnala ciò che segue: «Il Governo è delegato ad adottare, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi per la riforma delle disposizioni legislative di disciplina degli strumenti e delle procedure attualmente previsti dall’ordinamento in materia di tutela dei minori nella visione di opere cinematografiche e audiovisive, ispirandosi ai principi di libertà e di responsabilità, tanto degli imprenditori del settore cinematografico e audiovisivo, quanto dei principali agenti educativi, tra i quali in primo luogo la famiglia, e sostituendo le procedure attualmente vigenti con un meccanismo di responsabilizzazione degli operatori e di attenta vigilanza delle istituzioni, orientato all’effettività della tutela dei minori». Si evidenzia già un problema relativo alle tempistiche: quello che è stato annunciato ieri da legge avrebbe dovuto entrare a regime entro il dicembre del 2017, oltre tre anni or sono. Occorre ricordare come Franceschini sia stato ministro fino al giugno del 2018, per poi assumere nuovamente la carica dai primi giorni del settembre 2019. Il secondo punto dell’Articolo entra nel merito dei principi e dei criteri direttivi, sottolineando la necessità di introdurre «il principio della responsabilizzazione degli operatori cinematografici in materia di classificazione del film prodotto, destinato alle sale cinematografiche e agli altri mezzi di fruizione, e della uniformità di classificazione con gli altri prodotti audiovisivi, inclusi i videogiochi, che garantisca la tutela dei minori e la protezione dell’infanzia e la libertà di manifestazione del pensiero e dell’espressione artistica». È qui il punto cruciale, se tal si può definire, della questione: con il principio di responsabilizzazione degli operatori cinematografici sulla carta lo Stato non “abolisce la censura”, ma demanda semplicemente all’avente diritto sull’opera cinematografica la scelta di appartenere o meno a una delle categorie della suddetta “classificazione”.
Occorre forse procedere per gradi, e iniziare a rivedere l’idea che nessuno metterà più bocca su tanghi, giornate di Sodoma e ‘poveri cristi’. Dispiace dover tornare sempre con la mente a Tomasi di Lampedusa e al principe di Salina, ma il gattopardesco cambiare tutto per far sì che nulla cambi aleggia pesantemente nell’aria. Fino a ieri, fino a un minuto prima che venisse diramato il roboante comunicato stampa, esisteva la censura? Esisteva una Commissione per la Revisione Cinematografica, i cui membri scelti per ruolo (esperti della materia, psicologi dell’infanzia, rappresentanti delle associazioni dei genitori, delle associazioni di categoria e delle associazioni a tutela degli animali) erano dislocati su 7 sezioni. Il compito di queste sezioni era quello di visionare i film proposti per il Visto Censura e attribuire le varie codifiche: film per tutti, con limitazione ai minori di 14 o 18 anni, fino alla negazione del nulla osta per la proiezione pubblica. Cos’è cambiato ieri, dopo l’annuncio del ministro Franceschini? Nulla, o quasi. Esiste ancora una commissione di 49 membri (non resi pubblici) divisa in 7 sezioni, con un Presidente (Alessandro Pajno, Presidente emerito del Consiglio di Stato). Il loro scopo? Sempre quello di visionare le opere che verranno sottoposte. Qual è allora la differenza sostanziale? Come indica la Legge, la “ responsabilizzazione degli operatori cinematografici”. I film, che un tempo arrivavano agli occhi dei commissari “nudi”, privi di qualsiasi riferimento ideale, saranno ora presentati già con una classificazione attribuita dalla produzione o dalla distribuzione. Starà dunque a chi il film lo propone suggerire se si tratta di un’opera adatta a tutte le fasce d’età, non adatta ai minori di 6 anni (scaglione anagrafico introdotto dalla Legge), ai minori di 14 o a quelli di 18. La Commissione dovrà dunque vagliare se tali “limiti” siano considerati accettabili, o vadano invece inaspriti. A essere maggiormente responsabilizzata è anche la famiglia, o chi ne fa le veci, perché un dodicenne accompagnato potrà entrare a vedere un’opera considerata inadatta ai minori di 14 anni e un sedicenne potrà fare lo stesso con un limite alla maggiore età se in presenza dei genitori o dei tutori legali. Dettagli magari non indifferenti, ma che di certo non suggeriscono una reale rivoluzione del sistema, al quale viene impedito solo di vietare in senso assoluto la circolazione di un film: un evento già di per sé estremamente raro, se si considera che l’ultimo caso è quello relativo a Morituris di Raffaele Picchio, che non ottenne il visto censura nel corso del 2011.
Dopotutto anche i divieti ai minori di 18 anni si contavano negli ultimi vent’anni sulle dita di una mano, e questo conduce inevitabilmente a una considerazione ulteriore, che l’estensore di una Legge Cinema non può non affrontare. Nel momento in cui lo Stato nei fatti si limita a vagliare o meno le autocertificazioni presentate da altri, non si sta in qualche misura lavando le mani di ciò che viene effettivamente prodotto? Con il ricasco dell’intera responsabilità su chi deve produrre un’opera il vero rischio non è forse quello che la tentazione già serpeggiante all’autocensura deflagri in maniera definitiva e incontrollabile? Se qualche caso di distributore che “gioiva” dell’eventualità di un divieto ai minori di 14 anni per poter vendere meglio il film in fase di lancio era in effetti rintracciabile, molti di più sono sempre stati i casi in cui si cercava disperatamente di evitare un blocco dei possibili spettatori, fino a cadere nel ricatto del taglio, dell’eliminazione del fotogramma, della scena, della battuta di dialogo. Ora che l’intera responsabilità è tutta sulle spalle di produttori e distributori, non si andrà forse incontro a un controllo di base ancora più serrato verso i soggetti che meritano attenzione, o che possono essere messi in cantiere? Chi ieri esultava al grido di “abolita la censura” (che somigliava nei modi e nei tempi all’agghiacciante “abbiamo abolito la povertà” di appena un paio di anni fa), ha davvero creduto che fosse per colpa delle Commissioni ministeriali se in Italia non ci sono più i vari Pasolini, Bertolucci e via discorrendo (andrebbe anche ricordato come a mandare al rogo i loro film non sia stata nessuna commissione ministeriale, ma la “giustizia” ordinaria)? In un sistema di immagini che ha come veicolo la sala cinematografica ma come scopo ultimo lo sfruttamento su piattaforme, o canali televisivi, come si fa a pensare che qualcuno si prenda la briga di produrre film che gli algoritmi delle suddette piattaforme boccerebbero con una rapidità assai maggiore di qualsiasi Commissione? La verità è che l’ultimo film a creare davvero scandalo, Totò che visse due volte, non solo è vecchio di oltre vent’anni, ma è una produzione indipendente di Ciprì e Maresco con il fedele sodale Rean Mazzone: non certo un film dell’industria, come potevano invece essere le altre opere succitate. L’abolizione della censura è entrata in vigore molto prima, e non per legge, quando in realtà le produzioni e le distribuzioni hanno iniziato a evitare direttamente lo scontro, preservandosi. Un’edulcorazione che ha anestetizzato lo sguardo così tanto da far passare per pericolosi film che al massimo osavano uno scarto ulteriore, mostrando ciò che il pudore generale non considera più adatto alla visione. Se c’è una determinazione più o meno chiara del funzionamento della Commissione che deve intervenire a posteriori, non esiste una regolamentazione di nessun tipo per questa autocensura preventiva. Il rischio è proprio che torni in atto quella censura che ieri pare essere stata abolita per sempre. Un bel paradosso, non c’è che dire, che si somma a un altro, contingente: ieri il ministro della Cultura esultava per la conquista della libertà dei film, una libertà acquisita mentre tutte le sale cinematografiche del Paese sono chiuse a data da destinarsi. Più che la censura si ha a volte l’impressione che si stia cercando in tutti i modi di abolire il cinema.