The Parents’ Room

The Parents’ Room

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Presentato nella sezione Autres joyaux del 32° FIDMarseille, dopo l’anteprima tra i corti della Quinzaine des Réalisateurs, The Parents’ Room è opera del visual artist Diego Marcon, che persegue una riflessione sul cinema e sui suoi generi classici come l’horror e il musical, messi insieme provocando così un corto circuito dialettico.

Uccise la famiglia al cinema

In una camera da letto, seduto sul bordo di un letto matrimoniale sfatto, un uomo guarda fuori dalla finestra la neve che cade. Un merlo si posa sul davanzale e intona un canto che arriva a formare una melodia su cui l’uomo inizia a cantare. L’uomo racconta di aver massacrato i figli e la moglie nel sonno e di essersi poi suicidato. Uno alla volta, appaiono suo figlio e sua figlia, e anche sua moglie si gira nel letto, cantando un verso da soli. Una volta che la storia è finita, il merlo vola via e l’uomo torna a guardare fuori dalla finestra. [sinossi]

Il lavoro del visual artist Diego Marcon sembra perseguire una decostruzione del cinema, sia per quel che riguarda le sue narrative dei generi classici, sia per quanto riguarda la sua essenza stessa di immagine in movimento, la sua consistenza originaria come pellicola, il suo linguaggio nel concetto, per esempio, di fuori campo. Ne è un esempio The Parents’ Room, presentato in forma di cortometraggio nella sezione Autres joyaux del 32° FIDMarseille, sviluppato anche nel FIDLab, proiezione che ha seguito di poco l’anteprima tra i corti della Quinzaine des Réalisateurs. L’opera potrebbe essere vista come la combinazione di due generi classici hollywoodiani, il musical, che si pone al limite di quella sospensione dell’incredulità che è alla base del cinema, e l’horror.

The Parents’ Room funziona con una partitura musicale perfettamente nello stile fatato di tanti classici, con l’ouverture che parte con il fischiettare di un merlo alla finestra che dà su un paesaggio innevato, con i fiocchi di neve che continuano a cadere, altra immagine fiabesca. L’horror sta in un fuori campo, nel racconto cantato dei personaggi che descrivono una scena atroce, che non vediamo e che dobbiamo immaginare. Una scena come quelle che saltuariamente (e anche con una certa frequenza come si può verificare da una semplice ricerca in rete) ci raccontano le cronache nere: un uomo in un raptus di follia ha massacrato tutta la sua famiglia per poi togliersi, egli stesso, la vita. Non c’è in effetti grande differenza, nella nostra società dello spettacolo, tra un film di Dario Argento e il delitto di Cogne con la grande attenzione mediatica che queste vicende suscitano. Diego Marcon lavora con la materia stessa di cui era fatta quella fabbrica dei sogni del cinema, ovvero la pellicola 35mm, usando una aspect ratio 1,33:1, quella del cinema di una volta. Al contempo usa strumenti del cinema contemporaneo, quale la CGI, al contrario emblema del cinema digitale, smaterializzato, e trucchi prostetici. Questi ultimi comunque non sono che l’evoluzione di quegli effetti speciali classici ancora materici, il make-up dei mostri, mentre sarebbe facilissimo oggi ottenere risultati simili con la manipolazione digitale.

Il perturbante di The Parents’ Room viene trasmesso, oltre che dall’effetto dialettico dell’unione dei due generi, anche da questi volti dei protagonisti, come sfigurati, sfregiati. La loro esistenza è quella di fantasmi in un limbo del sonno, da cui emergere temporaneamente per esprimere una breve narrazione cantata. Sono come figure classiche dell’horror, ma anche pupazzi inquietanti, alla Svankmajer. Sono figure di età indefinita, anche il padre potrebbe sembrare un bambino, una figura che ricorre nei lavori di Diego Marcon e che rimanda ancora a inquietudini cinematografiche.

In The Parents’ Room tornano elementi di altre opere dell’autore: il bambino che intona arie che portano un senso di morte in Ludwig, una videoinstallazione per il MAXXI, mentre Monelle, presentato all’IFFR e al FID, si gioca pure su una decostruzione dell’horror dove il fuori campo è quello, nel buio, tra un flash che illumina la scena e l’altro, riflettendo anche sulla consistenza dell’illusione dell’immagine in movimento del cinema, generata dalla successione veloce dei fotogrammi: potrebbe paradossalmente esserci qualcosa tra un fotogramma e l’altro che non si vede. The Parents’ Room è ora fruibile, ai festival in cui è stato proiettato, nella sua dimensione lineare di film, demarcato da un inizio e una fine. Ma verrà, come altri lavori dell’autore, proposto anche in una variante da videoinstallazione, con una struttura circolare che procede in loop (termine che pure nasce per la pellicola, per gli anelli da proiettare in continuo). In fondo anche quest’ultima opzione ci riporta alla fantasmagoria del cinema delle attrazioni, un dispositivo come un carillon da caricare in continuo.

Info
La scheda di Parents’ Room sul sito del FID Marseille.

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