I giganti

I giganti

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I giganti, presentato in concorso al Festival di Locarno, è il quarto lungometraggio da regista per Bonifacio Angius, che ragiona sull’isolamento, e sull’incapacità a relazionarsi con il mondo esterno senza puntare direttamente l’occhio sulla pandemia e le sue conseguenze. Un film d’interni, claustrofobico e cadenzato da scontri verbali gestiti con estrema intelligenza, grazie anche al contributo di un cast in grande spolvero – tra gli attori c’è anche lo stesso regista.

La grande sniffata

Una rimpatriata tra vecchi amici. Una casa sperduta in una valle dimenticata dal mondo. Tanti ricordi, piombo, e storie d’amore dall’abisso. [sinossi]

Nel pieno del delirio dovuto all’assunzione di crack, Riccardo (il personaggio più giovane tra i protagonisti de I giganti, l’unico che proviene da una generazione diversa rispetto agli altri quattro) parlando agli amici afferma “Respirare è molto importante. Respirare nelle tue radici, nella tua terra che solo in quel momento diventa tua. E se potesse parlare, frate’, sai cosa direbbe? Ti racconterebbe la storia dei tuoi nonni, le avventure dei tuoi prozii, dei guerrieri shardana, dei Giganti di Mont’e Prama che si facevano largo con la loro sciabola e trafiggevano chiunque si parasse davanti”. Per quanto questo passaggio sia per l’appunto inserito all’interno del deliquio psicotico che poco per volta si fa largo, insinuandosi negli spazi liberi di una trama che riduce all’osso il proprio impianto – cinque uomini si ritrovano nella casa di campagna in cui vive uno di loro con l’unica intenzione di stordirsi di droga fino alle estreme conseguenze –, è possibile rintracciarvi all’interno un dettaglio tutt’altro che secondario nella poetica di Bonifacio Angius, vale a dire il rapporto con la Sardegna, con il suo mito, con la terra che vibra sotto i piedi e solo all’apparenza può sembrare brulla. Una riflessione rintracciabile anche negli immediatamente precedenti Ovunque proteggimi e Perfidia (quest’ultimo, proprio come I giganti, presentato in concorso al Festival di Locarno), ma soprattutto in Sagràscia, l’affascinante film con cui oltre dieci anni fa Angius esordì alla regia, portato all’epoca con coraggio in sala da Distribuzione Indipendente. Cos’è la madrepatria se non il luogo in cui si può comunque respirare? La Sardegna di Angius è in ogni caso un non-luogo, uno spazio onirico dove verità e finzione si confondono, come la mente ottenebrata dal festino a base di cocaina, eroina, speed e chi più ne ha più ne metta.

In questo spazio-non-spazio si rinchiudono volontariamente i cinque protagonisti de I giganti: Stefano, Massimo, Andrea, Piero, e il già citato Riccardo. I primi quattro sono alle prese, chi un modo chi nell’altro, con il fallimento, hanno scavallato il punto di non ritorno delle loro vite e non sembrano saper far altro che vederle deragliare, in attesa dell’ineluttabile. Con loro Riccardo, angelo custode che non custodisce e anzi si stordisce come e più degli altri, ma è l’unico a verbalizzare in una logorrea continua il disagio altrui, invece che il proprio. L’unico ad avere ancora la lucidità per vedere la direzione intrapresa e capire dove avverrà l’impatto, e a che velocità: quell’impatto che Massimo, abbandonato dalla moglie che si è portata via la figlioletta, sogna di avere contro un treno, non tanto per mettere fine alla propria vita, ma semmai per far ricadere sull’ex compagna il senso di colpa che a suo avviso non sta provando. È interessante come Angius si muova con grande intelligenza attorno a due schemi, uno mutuato dal cinema e l’altro dalla realtà. Dalla verità quotidiana prende a spunto il concetto di isolamento che la pandemia ha portato con sé alla ribalta, suggerendo però un’esistenza da sempre fuori dalle traiettorie sociali, incapace di muoversi al di fuori di se stessa e delle proprie idiosincrasie. Dal cinema invece deriva la struttura stessa del film, che rimanda echi de La grande abbuffata: se Ferreri però mandava al macello – autoimposto, sia chiaro – la crème de la crème della società (un pilota d’aerei, un magistrato, un produttore televisivo, e un importante ristoratore), i quattro coetanei de I giganti sono reietti, sociopatici, del tutto inadatti ad avere rapporti con l’altro sesso. Perfino Piero, l’unico che è “arrivato”, si è fatto strada in politica solo grazie alla corruzione.

Angius costringe i suoi personaggi nella casa, permettendo loro di evadere solo nello spazio illusorio del flashback, e lavorando al contrario sulla costrizione: costrizione fisica, verbale, psicotropa, perfino sessuale (la splendida sequenza in cui sono presenti due donne, lì invitate da Piero ma ben presto fatte fuggire, è il paradigma perfetto delle volontà di Angius tanto come narratore quanto come costruttore di immagini, e di suspense). Non esiste possibilità di uscire da questa gabbia, se non attraverso un lungo e disossante gioco al massacro che non guardi in faccia a nessuno. Come già accaduto in passato il regista sardo utilizza il cinema per mostrare il disequilibrio, l’incapacità di ergersi contro il tempo e di farlo proprio: I giganti è un film di fantasmi, di spettri del passato che continuano a maledire il presente perché gli sfugge tra le dita, di sconfitti che preferiscono il sonno della mente all’atto riparatore, del quale non sarebbero in grado di reggere le conseguenze. In fin dei conti, come sottolinea il finale, I giganti è un film sul sogno, il sogno di una vita mai vissuta così come di un tempo scomparso, ma anche il sogno di un cinema d’altri tempi che cerca di resistere alla disperata dissoluzione dell’interazione umana. Involucri chiusi in loro stessi, i personaggi del film sono spettatori che non si sanno rapportare tra loro, e neanche con lo schermo su cui passa inesorabile la loro esistenza. Non è più l’epoca dei guerrieri shardana, però. L’ultimo colpo, come suggerisce Riccardo il logorroico, “sarà per te stesso”.

Info
I giganti, trailer.

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