Solaris

Pellicola inscindibile dal successivo Stalker, Solaris non è evidentemente la “risposta sovietica” al monolite kubrickiano e non è, nelle reali intenzioni del cineasta russo, nemmeno un film di fantascienza. Lo è giusto un po’, quel tanto che basta per placare lo sdegno di Stanisław Lem. Opera ipnotica, di fruizione non immediata, Solaris è un viaggio verso l’infinito interiore, tra i meandri indistricabili della mente umana. Più fede che scienza, più fantacoscienza che fantascienza.

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Dopo un viaggio interstellare, lo psicologo Kris Kelvin raggiunge la stazione spaziale del pianeta Solaris, sospesa sopra un misterioso oceano gelatinoso. La sua missione è chiara: entrare in contatto coi tre scienziati Snaut, Sartorius e Gibarian, ultimi componenti di un equipaggio decimato, e cercare di venire a capo dei loro inspiegabili comportamenti. Appena arrivato, Kelvin apprende del suicidio di Gibarian, del quale era stato allievo e collaboratore. L’oceano di Solaris è un’entità pensante in grado di materializzare l’inconscio degli umani, di far comparire persone che vivono nella loro mente: lo stesso Kelvin si troverà di fronte la moglie Hari, morta suicida dieci anni prima… [sinossi]

A quasi cinquant’anni di distanza, Solaris resta uno straordinario e (quasi) irripetibile esempio di fantascienza antispettacolare e, per molti ma non per tutti, antispettatoriale. Anche antiautoriale, se la si guarda dal punto di vista di Stanisław Lem, dettosi a più riprese assai deluso dall’approccio di Tarkovskij, dal depotenziamento dell’apparato fantascientifico, dai tagli e dalle aggiunte, dalle varie riscritture: «come ho detto a Tarkovskij durante uno dei nostri litigi, non ha fatto affatto Solaris, ha fatto Delitto e castigo»1. L’elevazione spirituale e la redenzione della trasposizione tarkovskijana, nonché il lungo prologo terreste e l’ipnotico e fluttuante vagare sulla celebre tela di Bruegel Cacciatori nella neve, decretano infatti una sorta di vittoria della realtà sul concetto mainstream di fantascienza. Una scelta decisamente controcorrente, diversa anche dal pur monumentale e impegnativo 2001: Odissea nello spazio, che lo stesso Tarkovskij spiega in poche ma significative parole: «non mi piace la fantascienza»2.

«Quello che conta qui è l’uomo, la sua personalità, i suoi legami molto persistenti con il pianeta Terra, la responsabilità dei tempi in cui vive»3. Al di là delle possibili e mutevoli interpretazioni della pellicola, che ha un senso davvero compiuto solo nella sua versione originale e non nell’edizione martoriata da Dacia Maraini e dalla distribuzione italiana Euro International Film, è la fede nell’umanità e nei suoi sentimenti a risaltare ancora oggi, più della solaristica come allegoria del comunismo sovietico, dell’ispirazione freudiana delle apparizioni, della critica a una scienza che si isola dalla realtà. Tarkovskij rigetta gli elementi tipici della fantascienza, sfronda gli inutili orpelli spettacolari e scenografici, e compie con gli stivali delle sette leghe l’ultimo passo del percorso politico-filosofico della fantascienza d’oltrecortina, iniziato negli anni Sessanta con titoli validissimi e spesso dimenticati come la space opera cecoslovacca Ikarie XB 1 di Jindřich Polák, tratta dal romanzo La nube di Magellano del solito Lem, e il post-apocalittico Fine agosto all’hotel Ozón di Jan Schmidt, altra perla della sci-fi ceca.

Interessato più all’interiorità che al cosmo, qui declinato come proiezione dell’inconscio, Tarkovskij nega allo spettatore l’outer space hollywoodiano e si\ci immerge nell’inner space, lo spazio interiore ballardiano. È da questa traiettoria minimalista ma infinita che emerge l’umanità negata di Hari, personaggio che anticipa le suggestioni dickiane de Il cacciatore di androidi e Blade Runner e le varie diramazioni cyberpunk. A suo modo circolare, il percorso riscritto da Tarkovskij ci riporta apparentemente al punto iniziale, eppure distantissimo: strappato ai meravigliosi e rassicuranti paesaggi terrestri dell’incipit, brutalmente tagliato nella versione breve e apocrifa, ritroviamo Kelvin nell’abbacinante mise en abyme finale che sembra ricondurlo come un figliol prodigo rembrandtiano alla salvifica dacia paterna, per poi immergerlo in una dimensione coerentemente altra, infinita e aperta a una fiumana di irrisolte domande. Oltre la vita, oltre la morte, oltre lo Spazio, Kelvin e la moglie Hari, che non è più un illusorio simulacro o un’inerte replica e che finisce per sovrapporsi all’immagine della madre, sono la manifestazione di una tormentata ma profonda fede nell’umanità, sono il frutto della personale rilettura tarkovskijana del romanzo di Lem («Il mio Solaris non è dopotutto vera fantascienza. Né lo è il suo predecessore letterario»4), sono l’Adamo ed Eva di una poetica che si nutre di eterni ritorni, di sacrifici, di nostalgia. L’odissea c’è, ma è interiore, come ci sono alcuni sorprendenti strappi immaginifici e spettacolari, su tutti la lunga e ipnotica sequenza tra le strade e i tunnel cittadini. Perché, come ripetuto più e più volte dallo stesso Tarkovskij, «la vita stessa è un fenomeno fantastico»5. Come avrebbe detto Callisto Cosulich, Solaris è un’opera di fantacoscienza.

Note
1 Cfr. Andrei Tarkovsky on… Solaris, www.nostalghia.com, traduzione in inglese da Stanisław Bereś, Rozmowy ze Stanisławem Lemem, Wydawnictwo Literackie, Cracovia 1987.
2 Ibidem, traduzione in inglese da Wiesława Czapinska, Interview Andrzej Tarkowski – Spotkanie z rezyserem with Wiesława Czapinska, «Ekran», n. 1, 1980, pp. 18-19.
3 Ibidem, traduzione in inglese da Stanisław Bereś, op. cit.
4 Idem.
5 Idem.
Info
Il trailer di Solaris.
L’edizione Criterion di Solaris.

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