La corona di ferro

La corona di ferro

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A ottant’anni dalla sua realizzazione La corona di ferro, sedicesimo lungometraggio diretto da Alessandro Blasetti nei suoi primi dodici anni di attività, riesce ancora ad avvincere per il suo ritmo forsennato, l’incredibile rutilare dell’azione. Inquadrato nella sua cornice storica si dimostra un interessante tentativo di proporre soluzioni incruente in pieno periodo bellico, ma la sua forza è ancora quella di creare un fantasy epico che dialoghi con i giganti hollywoodiani ma mantenga una propria radice mitopoietica europea. Destò stupore il sedo nudo di Vittoria Carpi, che anticipa di un anno nel cinema di Blasetti quello di Clara Calamai ne La cena delle beffe.

Libertà per Kindaor!

Il passaggio della Corona di ferro, in viaggio verso Roma, nell’immaginario regno di Kindaor, coincide con la fine di una guerra conclusa con un fratricidio: Sedemondo uccide re Licinio suo fratello e gli usurpa il trono. Per eludere con astuzia e violenza il castigo profetizzatogli egli dà in pasto ai leoni il piccolo Arminio, orfano del fratello, e sevizia fino allo sterminio il popolo vinto. Ma il bimbo, allevato dalle belve invece che sbranato, diviene uomo, forte e giusto e, incontrando Tundra – la giovane figlia del re nemico di Kindaor – assetata di vendetta, diviene l’ignaro strumento della volontà di costei. Egli partecipa ad un torneo indetto da Sedemondo e, vincendolo, conquista la mano della figlia di questi, Elsa, che si è innamorata di lui. In tal modo si compie il destino che Sedemondo aveva creduto di sventare illudendosi che Arminio fosse morto. Elsa sacrifica la propria vita per la felicità di Arminio il quale, per diritto di nascita, diviene re e, a suggello della pace avvenuta tra i due popoli, sposa Tundra. [sinossi]

A suo modo appare significativo che nel roboante cicaleccio critico e di pubblico che ha seguito la presentazione dapprima a Venezia e quindi in sala di Freaks Out nessuno si sia degnato di tirare in ballo La corona di ferro, sedicesima avventura dietro la macchina da presa di Alessandro Blasetti in appena dodici anni di attività registica. Si è corsi indietro nel tempo fino a Giovanni Pastrone e al suo Cabiria, per ripensare al gigantismo produttivo, ma ci si è dimenticati del reame di Kindaor, della crudeltà di Sedemondo, del coraggio almeno in piccola parte libertario di Arminio, della selvaggia bellezza di Tundra. Non c’è casualità in questo. Da un lato ci si è dimenticati in senso assoluto di Blasetti, che pure fu uno degli autori più prolifici e poliedrici del cinema italiano a cavallo tra la fine del fascismo e l’approdo alla Repubblica; dall’altro c’è il fatto che la produzione dell’epoca fascista è la vera “vittima” della cancel culture in Italia. Come si trattasse di un universo di rigettare in toto, senza prospettive dialettiche e neanche la benché minima curiosità archivistica, la produzione cinematografica tra gli anni Venti e il 1943, quando l’Italia si frattura in due parti, quella liberata e la Repubblica di Salò, ed esce in sala Ossessione di Luchino Visconti, è un grande buco nero, un’oscura materia da evitare direttamente di maneggiare. Così, fingendo che non esistano le opere di Mario Soldati, Mario Camerini, Augusto Genina, Goffredo Alessandrini, e ovviamente Blasetti, si chiude gli occhi sull’idea del cinema come megafono della propaganda. Un’opera di oscuramento che assume contorni così antistorici da superare a pie’ pari il paletto ideale del ridicolo. È invece proprio ripartendo dall’analisi anche della produzione cinematografica che si può tentare non solo di avere un’idea chiara del pensiero comune durante la dittatura fascista, ma anche di rintracciare i germi dell’antifascismo che prolifereranno fino a comporre la chimera utopica del Neorealismo, uno dei più potenti atti di resistenza attraverso le arti del Ventesimo Secolo.

Anche per questo probabilmente sarebbe opportuno riscoprire l’intero corpus della filmografia blasettiana, anche quello meno interessante, più di prammatica, più asservito – sic et simpliciter – alle regole dell’industria: film come Palio, La tavola dei poveri, Ettore Fieramosca, Retroscena. L’afflato popolare trova nelle trame ordite dal regista titolare, prima di passare dietro la macchina da presa, della prima rubrica dedicata al cinema su un quotidiano italiano, la sua dimensione più pura, lontana da mediazioni intellettuali e solo occasionalmente davvero apologetica nei confronti del regime (rientrano in questa cerchia titoli quali Aldebaran e soprattutto Vecchia guardia). Animato da questo spirito Blasetti pone la firma in calce ai due film d’avventura più esaltanti della produzione italiana del periodo, e fondativi per affrontare la discussione tanto sul genere quanto sul concetto di fantastico: nel 1939 esce Un’avventura di Salvator Rosa, due anni più tardi è la volta de La corona di ferro. Se il primo film mostra evidentemente la volontà di portare in auge in Italia la divertita eleganza del cappa e spada hollywoodiano, con Gino Cervi agghindato a novello Errol Flynn sulle sponde del Tevere, il discorso con La corona di ferro si fa ancora più complesso. Rutilante racconto di un eroe e della sua difficoltosa (ri)presa del potere nell’immaginario regno di Kindaor, La corona di ferro sbircia senza complessi di inferiorità oltreoceano, ma lo fa ipotizzando la necessità di sposare le abitudini spettacolari di Hollywood alla struttura mitopoietica europea, e in particolar modo italiana. In tal senso davvero un antenato del film di Gabriele Mainetti, che prende il cinecomic e lo bagna nelle acque insanguinate della Guerra di Resistenza. Ma Blasetti ha un’ambizione se si vuole molto più spropositata, e allo stesso tempo una comprensione dell’aggettivo ludico che sembra mancare a Mainetti: ecco dunque che il film mostra fin da subito la sua natura miscellanea, in grado di mescolare la tragedia greca e quella shakespeariana, la mitologia norrena e le fiabe mitteleuropee, il mito greco e romano e la fabula seicentesca, in un grande guazzabuglio che non teme nulla e nessuno, e procede per la sua strada tra rimandi pseudo-storici e vere e proprie svisate fantasy.

In questo racconto volutamente superficiale perché immediatamente comprensibile a tutti, cui non mancano soverchie ingenuità mascherate dalla brillante messa in scena di Blasetti, tutto è compreso: il fratricidio, il nemo propheta in patria, la ribellione e il diritto al trono (si fece un gran parlare del sottotesto antifascista del film, celato in quel dichiarato pacifismo che è il punto di svolta del racconto e che pare fece uscire dai gangheri nientemeno che Hermann Göring durante la proiezione veneziana – il film vinse la Coppa Mussolini alla Mostra di Venezia –, ma va sottolineato come il diritto al trono di Arminio non viene mai minimamente messo in dubbio, neanche dal popolo che tanta parte ha all’interno del racconto), in un pot-pourri che fa in modo che nell’ora e quaranta o poco meno in cui si snoda il film non sia concesso un solo sbadiglio. Intrattenimento per l’intrattenimento, senza altra pretesa, La corona di ferro è un esempio unico nel panorama cinematografico italiano, così rigoroso e sfarzoso da lasciare abbagliati anche a ottant’anni dalla sua realizzazione. E poco importa che Cervi nei panni del villain di turno sia meno convincente di altre prove, o che la trama se ne vada di quando in quando a zonzo: tra abbaglianti chiaroscuri fotografici (splendido il lavoro di Václav Vích e Mario Craveri), scenografie imponenti, un grande senso dell’epica e la storia d’amore struggente tra Arminio e Tundra – a interpretare quest’ultima Luisa Ferida, fucilata dai partigiani il 30 aprile del 1945 insieme al compagno Osvaldo Valenti, membro della Xª MAS e a sua volta impegnato nel ruolo di Eriberto – La corona di ferro è uno spettacolo d’altri tempi, populista e popolare, in grado di solleticare anche le brame del pubblico. In tal senso destò stupore il sedo nudo di Vittoria Carpi, che anticipa di un anno nel cinema di Blasetti quello di Clara Calamai ne La cena delle beffe. La sua potenza risiede nella semplicità, forse persino nell’ovvietà, così esasperata e deflagrante però da non lasciare scampo. Una lezione sempre valida, forse oggi ancora di più.

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