Stringimi forte
di Mathieu Amalric
Con Stringimi forte Mathieu Amalric compie una dolorosissima ricognizione sul dolore e sull’elaborazione della perdita attraverso una raffinata e stratificata costruzione narrativa, che diventa anche riflessione sul cinema e sull’arte come unica arma per proteggersi di fronte alle angherie del tempo, e della vita. Eccellente l’interpretazione di Vicky Krieps.
Fuga
Stringimi forte è la storia di “una donna che parte” o che sembra partire. La storia destrutturata di una sposa che custodisce un segreto ‘musicato’ a turno da Chopin, Debussy, Rameau, Ravel, Beethoven, Mozart, Rachmaninov. Le note musicali, onnipresenti, sono il filo conduttore dell’emozione, dirigono il film verso una ‘montagna’ di dolore, svolgono un film che ne contiene due. Due film che raccontano la stessa fuga ma nel primo una donna fugge dalla casa dove vive con suo marito e i suoi figli, nel secondo fugge la loro assenza. [sinossi]
Stringimi forte, pur nell’assoluta fedeltà della traduzione, non può restituire il gioco rintracciabile nell’originale: Serre moi fort non suona infatti in alcun modo diverso da Serre moins fort, pur posizionandosi uno dei significati agli antipodi dell’altro. L’ispirazione, a quanto afferma Mathieu Amalric, viene da La nage indienne, brano inciso nel 2000 da Étienne Daho, che in un distico canta “Serre-moi fort, si ton corps se fait plus léger nous pourrons nous sauver”, per poi trasformarlo più avanti in “Serre moins fort, si ton coeur se fait plus léger je pourrai me sauver”. Proprio per ribadire la volontà di fondere serre-moi e serre moins il titolo originale presenta un errore ortografico, con l’elisione del trattino tra serre e moi. Dopotutto il film si muove per intero in una maniera duplice, vive di due anime, si compone di due segmenti tra loro riunificabili solo nella mente – e ancor più nel cuore – della protagonista. Con Stringimi forte Amalric compie un’operazione che si muove in direzione del procedimento retorico dell’ossimoro, ribadendo con forza la sua natura a un tempo sentimentale e teorica. Nel pieno della logica del melodramma, su cui si tornerà tra poco, Amalric trova la chiave di volta per ragionare sul cinema e sull’arte nel suo complesso – il ruolo del pianoforte non può non essere considerato centrale –, e per teorizzare dunque sulla rappresentazione come unico appiglio possibile per sopravvivere alle angherie del Tempo e della vita. Anche la fuga di Clarisse non può dunque che essere doppia: nel film c’è una fuga “materiale”, con la donna che si veste mentre tutti in casa stanno dormendo (il marito, la figlia maggiore e il figlio più piccolo), si mette alla guida della AMC Pacer, e si allontana da casa, ma c’è anche una fuga “mentale”, che le permette di ricostruire quel cuore spezzato, e di farlo ricorrendo all’immaginazione, alla narrazione. Al cinema. All’arte.
Nel quarto capitolo della Poetica di Aristotele, dal titolo “Le due fonti della poesia. Nascita e svolgimento della tragedia”, si legge: «In generale due sembrano essere le cause che hanno dato origine all’arte poetica, [5] e tutte e due naturali. Ed infatti in primo luogo l’imitare è connaturato agli uomini fin da bambini, ed in questo l’uomo si differenzia dagli altri animali perché è quello più proclive ad imitare e perché i primi insegnamenti se li procaccia per mezzo dell’imitazione; ed in secondo luogo tutti si rallegrano delle cose imitate. Prova ne è quel che accade in pratica, [10] giacché cose che vediamo con disgusto le guardiamo invece con piacere nelle immagini quanto più siano rese con esattezza, come ad esempio le forme delle bestie più ripugnanti e dei cadaveri. La ragione poi di questo fatto è che l’apprendere riesce piacevolissimo non soltanto ai filosofi ma anche agli altri, per quanto poco ne possano [15] partecipare. Per questo infatti si rallegrano nel vedere le immagini, perché succede che a guardarle apprendono e ci ragionano sopra riconoscendo ad esempio chi è la persona ritratta; se poi càpita che non sia stata vista prima, non sarà in quanto cosa imitata che procura il piacere ma per l’esecuzione, per il colore o per un altro motivo di questo genere». Nel 1640, in Du caractère élégiaque, Hippolyte Jules Pilet de La Mesnardière scrive: «Diciamo che l’elegia è un tipo di poesia che è propria delle cose lugubri. Didyme, che la definì, l’ha destinata a questo ruolo, poiché la chiamò aria triste, e che si canta sul flauto […]. Anche se la parola thrôos non indicasse tristezza, come nel profeta, che chiama con questo nome pietosi lamenti, questa sola circostanza di essere cantato sul flauto ci rende chiaro come questo poema fosse profondamente triste. Chi ignora che questo strumento adattato ai singhiozzi di certi Officinanti, chiamati praeficas, simboleggiava tra gli Antichi la musica dei funerali?». Questo brano è citato direttamente da Emmanuelle Hénin nell’affascinante testo “Plaisir des larmes et plaisir de la représentation : d’un paradoxe à l’autre”, pubblicato nel 2007 nella rivista Poétique, in cui l’autrice si interroga sul senso teatrale della distanza e vicinanza del concetto di “piacere” collegato alla disperazione umana, e in ultima istanza sull’ambiguo fascino della rappresentazione ideale del proprio funerale, estrema e ultima possibilità del dramma.
Si citava dianzi il melodramma, e non c’è dubbio che Stringimi forte metta in scena l’anima più profonda e in qualche modo radicale del mélo: quell’aria triste citata da Didyme, quella cosa lugubre cui fa cenno Pilet de La Mesnardière, ma soprattutto il piacere delle lacrime discusso da Hénin. Il melodramma è il ricorso al pianto rituale come atto di superamento della crisi, come catarsi dell’umano, come antidoto al vero dolore, quello di fronte al quale non si hanno strumenti in grado di proteggere. «È umano, se ne faranno una ragione», racconta a se stessa, ma anche al pubblico, Clarisse mentre immagina la reazione dei suoi familiari quando al mattino non la troveranno più lì, e dovranno imparare a vivere senza la sua presenza. È umano, com’è umana la voglia di fuggire, di non essere più lì. Perché la vita borghese imbriglia? No, perché solo fuggendo si può permettere al fantasma di esistere ancora. Solo attraverso la ricostruzione dell’immagine falsa si può preservare la speranza, il sogno della salvezza. «Smettila di fare le scale!», intima Clarisse mentre ascolta in macchina la musicassetta in cui è incisa la registrazione delle prove pianistiche della figlia. Non perché sia sbagliato farle, ovviamente, ma perché rimanere lì, alle scale, all’esercizio musicale più elementare, equivale a non evolversi, a non crescere, a non andare oltre. A non (soprav)vivere. Se in Stringimi forte c’è il fantasma persistente nella mente di Clarisse, e il suo inevitabile senso di colpa – quello che colpisce chi sopravvive – che si tramuta in arte, questo fantasma non si riduce a un’asfittica ricognizione intima, ma si eleva invece a tensione verso l’assoluto. Per questo, e non solo per l’ovvio apparentamento con la trama che vede la figlia diventare sempre più brava al pianoforte, Amalric utilizza composizioni di Ludwig van Beethoven (Per Elisa, la Sonata per pianoforte n. 1), le gavotte di Jean-Philippe Rameau – autore fondamentale del Rococò e strenuo difensore del melodramma –, ma anche Kleine Klavierstücke n°3 op 19 di Arnold Schönberg, Musica ricercata n. 1 di György Ligeti, per poi arrivare addirittura al Quatuor pour la fin du temps che Olivier Messiaen compose quand’era rinchiuso nel campo di concentramento di Görlitz. Di quest’ultimo viene scelto l’ottavo movimento, “Louange à l’Immortalité de Jésus”, solo di violino in cui Messiaen rivolge un’elegia al Gesù fatto Carne, al Verbo divino che diventa uomo, alla possibilità di sopravvivere alla morte, nella risurrezione per lui ma nella persistenza nella memoria per l’umano. All’interno della ricca colonna sonora Mozart, Chopin e Ravel vengono utilizzati nelle registrazioni di Martha Argerich, che appare anche in un frammento di Argerich – Bloody Daughter, film documentario che Stéphanie, figlia della superba pianista, ha dedicato alla madre. Un film scelto non casualmente, perché riconduce l’arte nel campo dell’intimità familiare, con i traumi di una che si confondono e guariscono (o inaspriscono) i traumi dell’altra. Come il lavoro di Stéphanie Argerich, anche Stringimi forte di Mathieu Amalric osa ciò che è apparentemente inosabile, lavorando su una struttura narrativa non solo costruita su flashback e flashforward, ma anche in grado di alternare il vero e l’immaginato (perché nel cinema non esiste il “falso”) e di sovrapporre i piani, di sprofondare nell’intimità di una donna per raccontare l’esigenza basica dell’umano, quella di attendere un disgelo fotografando il vuoto ma guardando in quell’immagine la raffigurazione del desiderio, una famiglia che riempe uno spazio oramai sterile, inerte. Il sogno/desiderio di esistere al di là della vita stessa, in un’opera a suo modo quasi foscoliana, dolorosissima, di una potenza rara.
Info
Il trailer di Stringimi forte.
- Genere: drammatico
- Titolo originale: Serre moi fort
- Paese/Anno: Francia | 2021
- Regia: Mathieu Amalric
- Sceneggiatura: Mathieu Amalric
- Fotografia: Christophe Beaucarne
- Montaggio: François Gedigier
- Interpreti: Anne-Sophie Bowen-Chatet, Arieh Worthalter, Aurèle Grzesik, Juliette Benveniste, Sacha Ardilly, Vicky Krieps
- Produzione: Les Films du Poisson
- Distribuzione: Movies Inspired
- Durata: 97'
- Data di uscita: 03/02/2022