Tori e Lokita

I fratelli Dardenne tornano per la nona volta in concorso al Festival di Cannes con Tori e Lokita, che condensa al proprio interno alcuni dei temi ricorrenti della loro cinematografia, dall’immigrazione al lavoro, fino alla marginalità. Anche lo stile non muta nel corso degli anni, pur trovando qui – forse anche grazie alla scrittura – un’ispirazione che sembrava mancare agli ultimi film.

…un topolino mio padre comprò

Tori e Lokita sono un ragazzino e una giovane arrivati in Belgio clandestinamente dall’Africa: se al più piccolo è stato concesso un permesso di soggiorno per motivi umanitari, per la ragazza le cose sono più complicate. Lokita deve infatti dimostrare alla Commissione per i rifugiati, che valuta la sua domanda, di essere la sorella di Tori. Nel frattempo i due lavorano in un ristorante/pizzeria come tuttofare, ma soprattutto aiutano il gestore nel suo vero business: lo spaccio. [sinossi]

I fratelli Dardenne, due Palme d’Oro all’attivo (la prima per Rosetta, la seconda per L’Enfant) tornano in Concorso sulla Croisette con un altro film, Tori e Lokita. Più che “nuovo”, infatti, viene ormai da dire “un altro”, l’ennesimo, come se i due avessero trovato la formula per realizzare un’opera, l’avessero brevettata e la riproducessero con qualche ingrediente differente ma per ottenere più o meno lo stesso sapore. Marginalità, immigrazione, lavoratori e poveri sono da sempre al centro della loro scena e chiaramente di per sé questo non è certo un male; stilisticamente, poi, il famoso e nervoso “pedinamento dardenniano” dei personaggi in azione (personaggi a cui le disgrazie non mancano mai), i primi piani mai intrusivi, l’occhio della videocamera che si muove in long take con i protagonisti nello spazio scenico (un occhio palesato ma alla giusta distanza) restano un marchio di fabbrica. Se è innegabile che il loro lavoro sia stato fondamentale per il cinema europeo a cavallo del Millennio, è però anche difficile trovare variazioni eccessive nella filmografia dei due registi valloni. Di sicuro ci sono stati sbandamenti e imprecisioni che li hanno portati di recente fuori strada (in particolare con La ragazza senza nome e L’età giovane, ossia i loro ultimi film prima di questo), ma con Tori e Lokita i Dardenne ritrovano la via, già percorsa e “sicura” ma non disprezzabile.

Una camera fissa apre il film sul volto di Lokita (Joely Mbundu), intenta a rispondere a una raffica di domande fuoricampo che i componenti della Commissione, deputata a valutare se la ragazza africana abbia diritto a un permesso di soggiorno in Belgio, le stanno ponendo: come è possibile che abbia riconosciuto il suo fratellino Tori (Pablo Schils) senza averlo mai visto e solo andando in un orfanotrofio del Benin? Come faceva a sapere il suo nome, visto che è stato proprio l’orfanotrofio a darglielo? La ragazza è in difficoltà e l’intervista viene sospesa. Dalla fissità dell’inquadratura si passa al movimento che sarà poi quasi incessante: nel ritrovare la strada stilistica e narrativa, i Dardenne con questo film tornano infatti spesso sui passi del febbrile lavorìo della povera Rosetta o sull’andirivieni di Marion Cotillard che aveva Due giorni, una notte per salvare il proprio impiego in fabbrica. Anche Tori e Lokita hanno parecchio da fare: lei deve mandare i soldi alla sua famiglia rimasta in Africa, saldare ancora i conti con i trafficanti che li hanno portati in Europa e che la minacciano senza giri di parole, lavorare assieme a Tori per un losco gestore di un ristorante/pizzeria che però, per guadagnare davvero, ha un bel giro di droga e li usa come spacciatori. Tralasciando il fatto che solo dietro a un locale fa la carbonara e la pizza si possa nascondere un giro di malavita (cosa che sicuramente può celarsi anche dietro a un grazioso bistrot che serve croque-monsieur), il film inizia con una situazione di viva incertezza sul futuro dei due, ma è scena per scena che scopriamo quanto sia ferale l’ambiente in cui si muovono e quanto siano in difficoltà i protagonisti, soprattutto Lokita visto che a Tori il permesso di soggiorno è già stato dato. Quando alla ragazza viene invece declinato, rendendola di fatto una clandestina in territorio belga con il dovere di tornare da dove è venuta, le cose si mettono davvero molto male. La ragazza non è riuscita a far credere di essere lì col fratellino, la sua storia – provata più volte in dormitorio con Tori – non è stata trovata convincente ed esaustiva: pur di rimanere in Europa, non le resta che accettare il ricatto del gestore del ristorante per cui lavora e seguire le sue ben poco gentili istruzioni. Non si può dire che manchi di senso e attualità, Tori e Lokita, ed è molto interessante il racconto (laterale nell’economia del film, centrale per le sue conseguenze) “dell’esame” che un richiedente asilo deve superare per dimostrare di non essere un semplice, banale, immigrato arrivato su un barcone per disperazione e rischiando la pelle, ma uno che deve essere protetto perché proveniente da zona di guerra o, come Tori, in palese pericolo nel suo Paese (in Benin e altri Stati africani esistono superstizioni legate ai “bambini stregoni” che rischiano la vita per questo: Tori è uno di questi bambini). Molto intelligente che i registi lascino in sospeso a lungo la risposta circa il fatto se Tori e Lokita siano davvero fratello e sorella o abbiano inventato tutto solo per far passare “l’esame” alla ragazza, che a quel punto sarebbe naturale tutrice del più piccolo: la verità è che non importa, essendo fratelli di sventura, uniti come solo i sopravvissuti possono essere, così uniti da travalicare pericolosamente le brutali regole imposte dal trafficante di droga dopo che Lokita viene scartata dalla Commissione…

Il film, per molti versi, non fa una piega: il rapporto tra i due protagonisti è forte e credibile; il personaggio di Tori, dodicenne sveglio, prodigo di energie e idee, è pieno di vita; i Dardenne girano comunque benissimo e in alcuni momenti la telecamera sembra aderire all’aria, seguendo le azioni con una fluidità e una naturalezza invidiabili. Se è stereotipato il mondo della “mala” con cui i due ragazzi interagiscono, l’inanellarsi di sfortune irrevocabili che accadono da un certo punto in poi lascia forse un po’ perplessi. Non c’è proprio dubbio che il rigetto della domanda di permesso di soggiorno sia una sciagura totale per un immigrato, ma in Tori e Lokita tutto quello che può andar male ci andrà, in una catena impossibile da spezzare fatta di scelte avventate immerse in un contesto completamente ostile. Ma, appunto, difficile dire che il film non sia riuscito o non raggiunga gli obiettivi che si pone. Il problema semmai è che, per quanto i Dardenne abbiano ripreso aria con Tori e Lokita dopo essere giunti un po’ sfiatati agli ultimi film, resta un senso di programmaticità eccessivo, una tensione esagerata per dimostrare una tesi (per quanto giusta, ovviamente, visto che il film parla di quanto poco siamo accoglienti in Europa) che in fondo è ben sintetizzata dalla canzone di Angelo Branduardi Alla fiera dell’Est, che i due protagonisti cantano in italiano, avendola imparata in Sicilia dove sono inizialmente sbarcati. Anche nel film arriva il bastone che picchia il cane che morse il gatto che si mangiò il topo: il solo ordine riconosciuto, per loro, sarà quello della forza, del più “grande” che divora il più piccolo. Ma la domanda circa i Dardenne resta: si può fare cinema per decenni senza cambiare mai, seguendo sempre la strada tracciata? Il che non significa non perdere la propria identità (sulla Croisette si è appena visto il nuovo film di Cronenberg, che ha mutato pelle e stile tante volte senza mai perdere la propria salda chiarezza concettuale e la propria teoresi), ma proprio non ripensarsi mai, seguire una formula collaudata fatta di contenuti molto simili raccontati in modi molto simili. Magari con risultati alterni e dunque anche discreti o buoni come questo Tori e Lokita, il miglior film dei Dardenne da anni. Ma è sufficiente?

Info
Tori e Lokita sul sito di Cannes.

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