Black Phone

Black Phone

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Dopo la parentesi marveliana di Doctor Strange Scott Derrickson torna all’horror con Black Phone, che trae ispirazione da un racconto di Joe Hill, figlio di Stephen King. Un lavoro elegante ma privo di reale forza, che si regge soprattutto grazie alla bella interpretazione di Ethan Hawke.

Una telefonata allunga la vita

Finney Shaw, adolescente di 13 anni, viene rapito da un sadico assassino che lo rinchiude in un seminterrato insonorizzato. Quando un telefono disconnesso inizia a squillare sul muro, Finney scopre di poter sentire le voci delle precedenti vittime, decise a fare in modo che ciò che è successo a loro non accada a lui. [sinossi]

Sono trascorsi tredici anni da quando Sperling & Kupfer pubblicò, con la traduzione di Matteo Curtoni e Maura Parolini, Ghosts, la raccolta di racconti di Joe Hill già data alle stampe, con un certo interesse mediatico, nel 2005 nel Regno Unito e nel 2007 negli Stati Uniti d’America. Il succitato interesse era in realtà del tutto svincolato dall’opera letteraria: Joe Hill è infatti lo pseudonimo dietro il quale si cela Joseph Hillström King, figlio di Stephen King. Non bastasse il fatto che il figlio di uno dei più celebri e celebrati romanzieri viventi avesse deciso a sua volta di intraprendere la carriera letteraria, Hill si permetteva addirittura il lusso di muoversi nel campo di gioco del padre, perché Ghosts è una raccolta di racconti dell’orrore, interamente focalizzati per di più sull’infanzia e l’adolescenza, vale a dire uno dei perni centrali della poetica di King. In molti non a caso ironizzarono – non a torto, in fin dei conti – sul fatto che l’opera fosse frutto del lavoro di un “King minore” in tutti i sensi, intellettuali e anagrafici. A distanza di oltre dieci anni dalla pubblicazione italiana di Ghosts Hill ha dimostrato di avere una corazza non di poco conto, continuando a scrivere romanzi – in Italia tutti pubblicati da Sperling & Kupfer – ma dedicandosi anche alla scrittura nell’ambito fumettistico, al punto da lavorare anche per la Marvel e in modo più continuativo per la DC Comics. Al di là del successo personale di Hill, l’impressione di trovarsi di fronte a un compendio del pensiero di Stephen King è tornata preponderante al cinema nell’estate 2022, quando si è cercato di combattere la terrificante calura con i brividi generati dal nuovo film di Scott Derrickson, Black Phone, che proprio da uno dei racconti ospitati in Ghosts prende l’abbrivio.

Derrickson è un nome che gli amanti dell’horror hanno imparato a conoscere bene, anche se la sua ispirazione si è mostrata tale solo a momenti alterni: se da un lato nella sua filmografia rifulgono lavori come The Exorcism of Emily Rose, con cui atterrì la Mostra del Cinema di Venezia nel 2005 rielaborando il terrificante caso che ebbe per protagonista la povera universitaria tedesca Anneliese Michel (tragica vicenda su cui si concentrò anche lo splendido Requiem di Hans-Christian Schmid), o Sinister, tra i più brillanti congegni horror dell’ultimo decennio, in grado di muoversi nei territori del demoniaco e della casa infestata da una prospettiva del tutto inusuale e sorprendente, dall’altro lato è difficile non tentennare di fronte all’insipido remake di Ultimatum alla Terra o al prevedibilissimo Liberaci dal male. In qualche modo riprendendo l’impressione lasciata dal racconto originale, il suo Black Phone sembra a tutti gli effetti il tentativo di imitare il mondo incubale di Stephen King: per quanto le atmosfere siano in grado di restituire quel respiro vintage che l’opera vuole rincorrere, si ha sempre la sensazione di assistere a qualcosa di artificioso. Ed è un peccato, perché ad esempio lo splendido incipit che mette in scena i sobborghi di Denver nel 1978 come se si stesse prendendo parte a un film di Richard Linklater – il riferimento a Dazed & Confused, fin dall’idea di prendere la rincorsa partendo da una partita di baseball tra bambini, è evidente, così come il lancio del razzo in aria sembra giocare con l’ultimo parto creativo del regista texano, Apollo 10 e mezzo colpisce in pieno il bersaglio. Un po’ più rozza invece la scelta di rimandare in modo pedissequo ad alcuni classici intramontabili di King, a partire da It (quell’impermeabile giallo…), quasi a voler sottolineare a tutti i costi il rimando tematico tra il testo di Hill e il grande romanziere. Derrickson si dimostra una volta di più regista di grande eleganza formale, in grado di costruire la tensione anche senza avere a disposizione molti elementi, ma la volontà di seguire in modo così pedissequo la struttura narrativa del racconto finisce con il limitare la potenza espressiva di un film che dovrebbe progressivamente trasformarsi in un incubo ma non vi riesce mai in modo compiuto e personale.

Se l’idea di un tredicenne che, una volta finito nelle grinfie del temibile “Rapace”, il rapitore seriale che ha già fatto sparire molti suoi coetanei in città, trova un possibile alleato nelle voci dei bambini morti che comunicano con lui tramite un vecchio telefono nero che trova (scollegato) nello scantinato in cui è stato rinchiuso, poteva aprirsi a molteplici soluzioni estetico/narrative, Derrickson sceglie sempre la via più semplice, o almeno quella più lineare, in un procedimento di scrittura per immagini che depaupera in parte il côté più tenebroso e ambiguo della vicenda. Così ci si trascina a tratti un po’ stancamente tra defunti che collaborano contro il loro aguzzino, famiglie disastrate per colpa di padri assenti, e qualche scheggia di sociologia che non trova mai però il respiro per poter esprimere il proprio potenziale. In questo thriller-horror di medio cabotaggio a salvarsi è soprattutto la bella interpretazione di Ethan Hawke (già al lavoro con Derrickson ai tempi di Sinister), perennemente mascherato ma in grado di restituire il lato malsano del suo personaggio grazie a un mirabile utilizzo del corpo e della voce.

Info
Black Phone, il trailer.

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