Apollo 10 e mezzo

Apollo 10 e mezzo

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Richard Linklater dirige Apollo 10 e mezzo, il suo ventunesimo lungometraggio, come se stesse passando una serata tra amici a raccontare un episodio della sua infanzia: interamente narrato dalla voce di Jack Black, il film è il tentativo di ritornare con la mente a un tempo perduto, idealizzato perché passato. Il sogno di un futuro che non si è mai realizzato, e che quindi può essere rappresentato solo attraverso l’animazione in rotoscope, già utilizzata dal regista texano in Waking Life e A Scanner Darkly.

Rocketship

Stanley, un uomo di mezza età, narra le proprie memorie di quando aveva nove anni, e gli Stati Uniti d’America si preparavano all’allunaggio: un’estate da passare con una famiglia numerosa, in un quartiere suburbano di Houston, con un padre che lavora alla NASA (ma in un ufficio burocratico). Così il piccolo Stan inizia a fantasticare, e a immagine di essere lui, a sua volta, inviato nello spazio, alla conquista dell’unico satellite naturale della Terra. [sinossi]

Apollo 10 e mezzo, il ventunesimo lungometraggio diretto da Richard Linklater in trentaquattro anni di attività, si inserisce in un momento particolare del mondo autoriale a Hollywood e dintorni: mentre il “nuovo” o apparentemente tale si muove in direzione di un futuro oramai così standardizzato da poter essere utilizzato ricorrendo a veri e propri blocchi narrativi – tutto il panorama legato ai cinecomic rientra in una simile definizione –, gli autori nati tra gli anni Sessanta e i primissimi anni Settanta si trovano sempre più spesso a voltare le spalle all’indietro, e a ragionare su concetti quali memoria e tempo. È stato così tre anni fa per Quentin Tarantino con C’era una volta a… Hollywood, e solo pochi mesi fa per Paul Thomas Anderson e il suo Licorice Pizza, e anche il nuovo lavoro di Linklater sembra muoversi nella medesima direzione. La memoria della storia come memoria del cinema, e dunque di se stessi, un modo per coniugare autobiografismo e ragionamento sull’immagine e il suo senso. Ma vi sono delle forti differenze: Tarantino aveva 6 anni nel 1969, e Anderson solo 3 nel 1973, e la loro “conoscenza” del tempo che mettono in scena è in ogni caso mutuata su una memoria artificiale, prodotta essa stessa attraverso il recupero dell’immagine, in qualche modo dunque indotta dall’esterno. Linklater invece è nato nel 1960, e in Apollo 10 e mezzo racconta la vita di un ragazzino di 9 anni nell’estate del 1969 – quella dell’allunaggio – nei quartieri residenziali e suburbani di Houston, vale a dire la sua città natale. Non si tratta dunque nel suo caso di una memoria ricostruita, ma di un tempo effettivamente esperito, di un vissuto reale. Il tempo è d’altro canto uno degli elementi centrali dell’intera filmografia di Linklater, basti pensare alla “trilogia dei Before”, che è tornata ciclicamente ogni nove anni a partire dal 1995 per raccontare l’innamoramento e la relazione tra un ragazzo/uomo statunitense e una ragazza/donna francese: ma si pensi anche a Boyhood, costruito pezzo per pezzo per dodici anni, attraverso poche riprese svolte ogni anno, in modo da non dover ricorrere all’ellissi, ma di poterla rappresentare in tutto il suo peso concreto. Per rimanere in tema, Linklater è impegnato nelle riprese di Merrily We Roll Along, tratto dal musical di Stephen Sondheim e, seguendo la linea narrativa, queste continueranno per altri diciotto anni: il risultato finale dovrebbe essere visibile solo nel 2039/40, quando il regista avrà ottant’anni.

Se il tempo ha un ruolo così centrale all’interno della carriera di Linklater, lo stesso lo si può affermare per quel che concerne la messa in scena del Texas, e dunque del racconto di sé, e della propria esperienza: da Slacker a La vita è un sogno, fino ad arrivare a Tutti vogliono qualcosa (oltre al già citato Boyhood), la filmografia di Linklater appare come un tracciato perfetto durante il quale a ogni fermata si può conoscere un dettaglio, sia esso riguardante le abitudini degli adolescenti nell’anno del bicentenario della Rivoluzione, o pochi anni più tardi degli studenti del college. Ma equivarrebbe a commettere un grave errore approcciarsi ad Apollo 10 e mezzo pensando di potervi trarre ispirazione per mettere nero su bianco una biografia esatta del regista nel periodo della sua infanzia: come ogni oggetto cinematografico che si rispetti anche questa “A Space Age Childhood”, come specifica il sottotitolo originale, guarda alla ricostruzione del vero ma si rifugia nell’immagine ricostruita, tempio incontrastato della rêverie. Sogna Stan, il protagonista che è l’alter ego del regista – e non è casuale che la voce narrante dell’adulto Stanley venga affidata a Jack Black, caro amico del regista con cui ha lavorato in School of Rock e Bernie. Sogna di essere un astronauta bambino, chiamato dalla NASA – dove lavora il padre, ma svolgendo solo un’attività puramente burocratica, poco affascinante agli occhi di un bimbo – per risolvere i problemi cui potrebbe andare incontro l’Apollo 11. Sogna anche quando Neil Armstrong poggia il primo piede umano sul suolo lunare, già crollato dal sonno dopo una intensa giornata con fratelli e sorelle ad Astroworld, il parco giochi tematico della città. Con lui sogna anche lo sguardo irretito dalla memoria di Linklater, che gli costruisce attorno una famiglia idilliaca, così irreale che infatti nella vita vera il regista non ebbe. Per questo bisognerebbe dimenticare di considerare l’autobiografia una diretta discendente della verità: è semmai un’appendice del vero, la sublimazione di ciò che è stato attraverso il processo del ricordo, e della ricostruzione. Così, più della vita del piccolo Stan/Richard, a contare in Apollo 10 e mezzo è il continuo, certosino seppur inevitabilmente abbozzato, racconto di un’epoca e delle sue distonie. Nell’apice del successo dell’America del Capitale Linklater mettere in scena la vita quotidiana di una famiglia della middle-class, e già la vede isolata dal mondo, costretta a confrontarvisi solo attraverso un medium, in larga parte la televisione ma anche il cinema, o la radio. La vita è già un sogno, perché trasformata in rappresentazione di sé: un mondo in cui si mette da parte il cibo per i bambini vietnamiti che però stanno morendo di fame proprio perché l’esercito statunitense li bombarda con il napalm.

Nella sua totale, assoluta semplicità, così radicale da potersi permettere un racconto interamente portato avanti dalla voce narrante (i dialoghi tra i personaggi in scena sono ridotti al minimo), Apollo 10 e mezzo si allontana poco per volta dalla mera esposizione pur survoltata dal tempo dei fatti per trasformarsi in qualcos’altro, e prendere forme differenti. Nella nettezza della sua esposizione, che travalica il ricorso alla memoria, lo Stan oramai adulto prende le distanze dal filmino di famiglia per abbracciare l’ipotesi di un film-saggio, in grado non di raccontare le peripezie estive di una famiglia ma di allargare il tutto a una visione d’insieme sull’America del tempo. Così il piccolo ricordo intimo di un bambino diventa lo spazio adeguato a un trattato sociologico sull’epoca dei boomer, su quel momento idilliaco in cui l’assoluta e cieca fiducia nella scienza e nella tecnica furono in grado di far percepire – insieme a un boom economico in espansione – alla popolazione l’idea di un futuro nobile, pacifico, giusto. Il sogno di Stan diventa dunque il sogno dell’America stessa, quell’immagine di purezza che non sarà più in grado nei decenni a venire di preservare, ed è già fortemente incrinata dall’uccisione dei leader politici e dalla guerra in Vietnam: così, mentre i balzi di Armstrong sul suolo lunare riescono ad appassionare l’intera famiglia, non appena il presidente Richard Nixon si collega telefonicamente con gli astronauti utilizzando parole come “pace” i figli più grandi della famiglia si irrigidiscono e preferiscono andare a letto. C’è già la crisi, gli Stati Uniti sono già un’illusione, un Paradiso Perduto, un pianeta lontano lontano: mentre la televisione e la radio passano i successi del momento (i Monkees su tutti, amati da una delle sorelle del protagonista), Stan sul suo suolo lunare – quello che esiste solo perché esiste il cinema, e il sogno – è accompagnato da Astronomy Domine dei Pink Floyd, sicuramente non credibili su una stazione radio di Houston nel 1969. Nel suo compendio del pensiero della classe media wasp nel Texas di fine decennio, Apollo 10 e mezzo è anche un puntuale catalogo di cultura pop, dai vestiti alle canzoni, dai film ai programmi televisivi, fino ai giochi da tavolo o agli elettrodomestici a disposizione. In questi passaggi Linklater sembra guardare alla razionalità teorica di James Benning, non a caso suo caro amico – come testimonia il bel film che dedicò a entrambi Gabe Klinger.

Questa nettezza della memoria, questa immagine dell’immagine (i film visti in televisione o al cinema o ancora al drive in, per esempio: Il mago di Oz che ogni anno viene trasmesso sul piccolo schermo ma che, per via della tecnologia, non ha più alcun tipo di differenza tra la parte in bianco e nero e quella a colore, per esempio), questo viaggio a ritroso nel tempo, non poteva permettersi un’immagine contemporanea, e un film di Linklater non avrà mai i mezzi produttivi per garantirsi una finzione credibile del tempo. Ecco dunque tornare il discorso sul rotoscope, che il regista texano aveva già testato sia con Waking Life che con A Scanner Darkly. In una certa qual misura Apollo 10 e mezzo può essere visto come un crocicchio tra i due, film di fantascienza intimista da un lato e sogno lucido dall’altro: ma se l’immagine rotoscopica nei precedenti lavori era utilizzata in modo fluttuante, a testimoniare l’impercettibilità reale della materia là dove a dominare sono il sogno o il delirio psicotropo, qui al contrario serve proprio a donare una materialità impossibile a un passato mai vissuto, eppure raccontato, mai completamente esperito ma ricordato. L’animazione, come sempre in Linklater, non è un orpello, un ghiribizzo artistoide, ma viene messa in campo per approfondire il discorso intrapreso, stratificandolo. E serve a garantire un’immortalità – e dunque un superamento del tempo – ad attori che altrimenti deperirebbero prima o poi rispetto a questa immagine, che invece come fosse per sempre persa nello spazio, non può invecchiare (non come quel che accade a Keir Dullea nell’ultima parte di 2001: Odissea nello spazio, e su cui si infervora con così tanta passione Stan, senza che i coetanei condividano il suo entusiasmo). Perché, come spesso accade con il cinema di questo regista, anche Apollo 10 e mezzo è un affresco di vita che vuol sopravvivere a se stesso, e che si lega agli affetti intimi, privati dell’autore. Solo conoscendo in profondità il cinema di Linklater ci si può trovare a singhiozzare di fronte alla scelta della canzone che accompagna i titoli di coda, vale a dire Rocketship di Daniel Johnston ma incisa da Kathy McCarthy nel 1994 per Dead Dog’s Eyeball, il suo album tributo al geniale cantautore. Quasi trent’anni fa, nel 1995, un’altra canzone di Johnston coverizzata da McCarthy (Living Life) chiudeva Prima dell’alba: Johnston era uno dei migliori amici di Linklater fin da quando il regista si era trasferito ad Austin per studiare, e recita nel primo film autoprodotto di Linklater, It’s Impossible to Learn to Plow by Reading Books (anno domini 1988). Il giorno della sua morte Linklater gli dedicò uno struggente ricordo sul sito della Austin Film Society (lo potete leggere qui). In Rocketship Johnston canta “We’re going on a trip far away | We’re leaving today | Our home is our rocket ship”, come fosse un bambino che guarda/sogna la Luna. Mentre scorrono i titoli di coda, che probabilmente Netflix taglierà per aiutare l’algoritmo a trovare nuovi contenuti da consigliare (sì, il film purtroppo esiste solo su piattaforma), utilizzando questa canzone Linklater sta ancora una volta compiendo un viaggio nella memoria, che è sempre una dolorosa e dolcissima riscoperta degli affetti, che non ci sono più ma con l’immagine possono esistere per sempre.

Info
Il trailer di Apollo 10 e mezzo.

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