Made in Britain

Made in Britain

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A ottantadue anni se n’è andato David Leland, un nome che forse oramai non dice più molto alle giovani falangi di cinefili, come quello del suo sodale Alan Clarke, che morì trentatré anni fa. Anche per questo rivedere Made in Britain, che Leland scrisse per Clarke nel 1982, significa riscoprire la verve politica del cinema (e della televisione, come in questo caso) inglese degli anni Ottanta; splendida la fotografia e i movimenti di macchina studiata da Chris Menges, energica e indimenticabile la performance del ventenne Tim Roth, al suo esordio davanti alla camera.

Once Upon a Time in England

Trevor è un giovane skinhead razzista inglese la cui vita è completamente dedicata alla violenza e alla distruzione. Rinchiuso in un centro di riabilitazione giovanile, ultima sua possibilità prima del carcere vero e proprio, Trevor non cambia il suo atteggiamento di sfida verso ogni forma di autorità. [sinossi]

“What ever happened to Fay Wray?”, si chiedeva Frank-N-Furter cantando Don’t Dream It, Be It nel Rocky Horror Picture Show; un interrogativo che si potrebbe riprendere per porsi il quesito su dove sia andato a finire il cinema britannico più purulento, politico, in grado di leggere la realtà e di trasporla sullo schermo con raffinata crudezza. Certo, ci sono gli ultimi fuochi del quasi nonagenario Ken Loach (The Old Oak è film di straziante potenza, qualora vi fossero dubbi) così come dell’ottantenne Mike Leigh – ma Peterloo, finora la sua ultima creazione, è “vecchio” di cinque anni –, ma l’impressione è che il panorama si sia desertificato: dopotutto la bella promessa racchiusa negli esordi di Shane Meadows è oramai bloccato sul piccolo schermo, e non dirige un film di finzione per il cinema dal 2009, anno in cui firmò lo sgangherato e geniale mockumentary musicale Le Donk & Scor-zay-zee. Lontani, lontanissimi sono i tempi in cui in televisione gli spettatori britannici si potevano imbattere in “serie” come The Wednesday Play, Play for Today, Play of the Month, vere e proprie palestre dello sguardo tanto per chi vi si imbatteva dal salotto di casa quanto per chi prendeva parte alle produzioni: qui si formarono infatti i già citati Loach e Leigh, e con loro i vari Mike Newell, Michael Apted, Alan Bridges, Stephen Frears, Roland Joffé, e ovviamente Alan Clarke. Già, Alan Clarke: sono trentatré anni che questo geniale e irrequieto regista è venuto a mancare (ancora giovane, a cinquantaquattro anni), e pare che nessuno o quasi ne serbi più memoria. Se ne sentì vagamente parlare all’epoca dello straordinario Elephant di Gus Van Sant, quando lo stesso cineasta statunitense fece notare ai più disattenti che il titolo del suo film era un omaggio dichiarato all’omonimo lavoro firmato per BBC Two nel 1989 proprio da Clarke su produzione di Danny Boyle, ma poi il nome ripiombò nell’oscurità. Tenebre da cui riemerge in questi giorni a seguito di un altro lutto, visto che la Vigilia di Natale è morto ottantaduenne David Leland, che per Clarke scrisse Made in Britain.

Ed eccolo dunque il secondo nome smarrito: David Leland. I più avvertiti potranno riannodare i fili della memoria tornando ad alcuni dei film in cui lavorò come sceneggiatore, quali Mona Lisa di Neil Jordan o Personal Services del Monty Python Terry Jones, ma è difficile imbattersi in qualcuno che conservi nello sguardo schegge dei suoi cinque film da regista. Tra questi sarebbe un delitto non riscoprire almeno l’esordio, quel Wish You Were Here (Vorrei che tu fossi qui! in Italia, con il riferimento al celeberrimo brano dei Pink Floyd che va a farsi benedire) che nel maggio 1987 venne presentato alla Quinzaine des réalisateurs di Cannes ottenendo anche il premio FIPRESCI. Clarke, Leland, nomi di un passato della produzione di immagini in Gran Bretagna che non ha oggi eredi, né desidera averli: un immaginario troppo scorbutico, doloroso, spiazzante, crudo e crudele (ma mai privo di umanissima pietas, e soprattutto di comprensione) per poter essere accettato e condiviso in un’epoca mediocre e manichea come quella attuale, dove la ricerca della complessità è divenuta una “colpa” da cui redimersi. Made in Britain di complessità ne mette in scena molta, a partire dal soggetto che sceglie come protagonista: Trevor, incarnato da un Tim Roth appena ventenne e al suo esordio televisivo (quello cinematografico arriverà un paio di anni più tardi, nel 1984, in Vendetta, il ritorno di Stephen Frears al grande schermo a tredici anni dal debutto con Gumshoe), è uno skinhead, con tanto di croce uncinata in bella vista sulla fronte. È violento, razzista, sboccato, irrefrenabile. Un devastatore, animato da una tempra belluina ben lontana dall’edonismo del drugo Alex DeLarge di Arancia meccanica: non è più tempo per il “Ludovico Van”, ora la frenesia vitalistica e mortuaria a un tempo la scandiscono gli scozzesi The Exploited, che dopotutto nonostante la dichiarazione anarchica di brani anti-establishment come Dogs of War e Army Life pare che simpatizzassero negli anni Ottanta con il National Front di Andrew Brons e Martin Wingfield.

Leland in qualità di sceneggiatore inserisce Trevor e Made in Britain in un ampio discorso sul sistema educativo britannico, considerato oppressivo, fascistoide, e ben poco incline alla dialettica: un gruppo di quattro opere pensate per il piccolo schermo insieme alla produttrice Margaret Matheson (che che era stata già nel 1977 alla base del progetto Scum, previsto per la televisione ma bocciato in quanto troppo violento e quindi riscritto da Roy Minton per Clarke in versione cinematografica nel 1979) che diventeranno note come Tales Out of School e contengono oltre a Made in Britain anche Birth of a Nation di Mike Newell, RHINO di Jane Howell, e Flying into the Wind di Edward Bennett. I borstal, i famigerati riformatori giudiziari in cui schiaffare i minorenni senza che di rieducativo vi sia davvero niente nel trattamento, sono al centro del discorso, e Made in Britain oltre a essere il film più celebre del quartetto è anche quello che analizza con maggior precisione il contesto, cogliendone distonie e stratificazioni. Leland, e con lui Clarke, vedono nel giovane teppista simpatizzante del nazismo interpretato da Roth un prodotto puro della Gran Bretagna, e non una sua degenerazione. Lo stesso ragazzo, dominato da un ego smisurato, agisce in modo così virulento e contrario alle regole della società proprio perché è perfettamente consapevole di esserne uno dei figli prediletti, più puri in fin dei conti (sicuramente più dei poveri derelitti figli delle “colonie” contro cui scaglia il suo ghigno furibondo e la sua ira). La società britannica è deterministica, e ha già deciso dove piazzare per i futuri decenni Trevor, ma l’adolescente al di là di desiderare la distruzione di tutto non fa nulla per emergere da tale schema, per combattere davvero e in profondità la propria condizione. Leland descrive con le parole il riandare nevrastenico e furente di un ragazzo in una società che non insegna neanche a leggere – molti dei coetanei con cui l’intelligente Trevor ha a che fare sono praticamente analfabeti – e che non fornisce reali strutture, ma solo coercizioni, con una disciplina calata dall’alto. Questo movimento perpetuo Clarke riesce a riprodurlo attraverso lo sguardo grazie all’intuizione di utilizzare in scena – una delle primissime occasioni per la televisione britannica – la steadicam. Questo fu possibile grazie al lavoro come direttore della fotografia del talentuosissimo Chris Menges, che l’aveva già sperimentata con ottimi risultati in Walter, prodotto da Channel 4 per Stephen Frears (Menges diverrà poi regista, dirigendo quattro film tra il 1988 e il 1999, il più notevole dei quali è Un mondo a parte); è il fluido movimento perpetuo operato da Menges a fungere da perfetto contraltare – e completamento – del discorso di Leland, con la lettura politica che esce dalla pagina scritta ed entra nell’occhio dello spettatore. Clarke si troverà così a suo agio con la steadicam da trasformarla nel centro nevralgico della propria poetica espressiva – si veda in tal senso il già citato Elephant del 1989. Ed è a suo modo spiazzante che un film cinetico come Made in Britain termini sul fermo immagine di un primo piano, per quanto inquietante esso sia: in realtà la sceneggiatura prevedeva di mostrare Trevor nel riformatorio educare i suoi compagni di sventura a scavare trincee (brillante e ancor più schizofrenica intuizione sull’unico ruolo che può davvero svolgere un penitenziario, vale a dire creare ulteriori steccati e divisioni), ma pare che scenograficamente la sequenza fosse venuta priva di mordente, e così in fase di montaggio si decise di eliminarla. Resta dunque il primo piano ghignante, quasi gioioso di essere definitivamente considerato “nemico” dal Sistema, di Trevor, di fronte al quale si resta senza parole, e senza difese. “What Ever Happened to British Cinema?”.

Info
Il trailer di Made in Britain.

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