Una pallottola per Roy

Una pallottola per Roy

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A metà strada fra gangster movie e western, di fatto il proto-noir per eccellenza, Una pallottola per Roy è uno dei più grandi e celebrati film di Raoul Walsh e fece svoltare la carriera di Humphrey Bogart, fino a quel momento relegato in ruoli di secondo piano. Ancora oggi un film vivido, che freme a ogni fotogramma di tensione, ritmo e sentimenti.

Criminale e gentiluomo

Dopo essere stato rilasciato dal carcere, il famigerato ladro Roy Earle viene assunto dal suo vecchio capo per aiutare un gruppo di giovani criminali inesperti a pianificare ed eseguire la rapina in un resort della California. [sinossi]

Raoul Walsh, classe 1887, calcava i set sin dagli anni Dieci, come collaboratore di D.W. Griffith, rimase attivo fino a metà degli anni Sessanta e fu uno dei più grandi registi di cinema d’azione, soprattutto western e film di gangster. Una pallottola per Roy si pone proprio al crocevia di questi due generi, oltre ad essere giustamente considerato un proto-noir. Non fu però né l’unico né il primo. C’erano stati già dei precedenti e alcuni di essi, non a caso, vedono nel cast proprio Humphrey Bogart. Qui citeremo soltanto La foresta pietrificata (The Petrified Forest, 1936, di Archie Mayo), in quanto il personaggio di Duke Mantee, interpretato da Bogart, un gangster al tempo stesso feroce e stanco, sconfitto in partenza, sembra già il prototipo della futura maschera attoriale di Bogart, messa a punto proprio a partire da Una pallottola per Roy. Bazin, contrapponendo l’attore newyorchese all’aspetto sano e in tutto per tutto positivo di Gary Cooper, scrisse di lui: “Nessuno più di Bogart ha, per così dire, incarnato l’immanenza della morte, la sua imminenza anche. Non tanto del resto di quella che si dà o che si riceve quanto del cadavere differito che è in ciascuno di noi”. La riprova del fatto che Humphrey Bogart sia stato una figura al tempo stesso in anticipo sui tempi e di transizione all’interno dello studio system si ha studiando il peculiare andamento della sua carriera, che ebbe inizio all’inizio degli Anni Trenta, gli anni del cinema gangsteristico della Warner Bros. che vide protagonisti assoluti Edward G. Robinson, Paul Muni, James Cagney e George Raft. Relegato per anni in ruoli da villain comprimario, Bogart faticava ad emergere. Perciò, quando si iniziò a pensare a un film sulla figura di John Dillinger, ucciso dall’FBI solo sette anni prima, a nessuno venne in mente lui per quel ruolo. Oltre a questo, con l’effettiva entrata in vigore del Codice Hays, la Warner Bros. stava subendo pressioni affinché si evitasse l’ennesimo film “celebrativo” sui gangster, perché così venivano recepiti da una parte dell’opinione pubblica. Bisognava inventarsi qualcos’altro. Quando W.R. Burnett, incaricato inizialmente di scrivere la sceneggiatura, pubblicò un romanzo che mantenne l’aderenza originale alla figura di Dillinger cambiando però in gran parte la storia e il finale, Jack Warner mise subito in cantiere la trasposizione cinematografica, con la sceneggiatura firmata da John Huston. Nasceva così Una pallottola per Roy (High Sierra, 1941), il cui successo fu tale da spingere Walsh nni dopo a girarne uno splendido remake in chiave western: Gli amanti della città sepolta (Colorado Territory, 1949).

Il ruolo principale fu proposto ai divi summenzionati, che però, uno dopo l’altro, rifiutarono. Questo perché seppure Dillinger, in vita, era divenuto a sua volta una specie di divo per la stampa e il pubblico, era pur sempre un desperado, un bandito di strada, anziché un gangster metropolitano “di tutto rispetto” al pari di quelli ritratti finora in pietre miliari come Piccolo Cesare (Little Caesar, 1931, di Mervyn LeRoy), Nemico pubblico (William A. Wellman, 1931) e Scarface (1932, di Howard Hawks). E così, a quarant’anni compiuti e con già oltre quaranta film interpretati, Bogie ottenne finalmente la parte che fece svoltare la sua carriera. Oltretutto, acconciato con quel particolare taglio e colore di capelli, somigliava non poco a Dillinger, anche se il nome del personaggio, per evitare polemiche, era stato cambiato in Roy Earle. Fu quindi Una pallottola per Roy a intercettare il mutamento di pelle della figura classica del gangster, un mutamento che era già in fieri, e fu il volto di Bogart ad operare questa trasformazione. Non si trattava più di un individuo esagitato e degenerato con manie di grandezza come i suoi predecessori: silenzioso, ma minaccioso, duro, ma non incline alla violenza se non provocato, Bogart dà vita con grande carisma e naturale autorevolezza a un personaggio del tutto nuovo: uno sconfitto, un disilluso, seppure dotato di principi inflessibili e di determinazione. In altre parole, un loser, come quelli che popoleranno il cinema americano dal Dopoguerra in poi. Tuttavia, ancora una volta (che però fu anche l’ultima) i produttori inserirono nei credits un altro nome prima del suo, quello di Ida Lupino. Il film di Walsh, cheper inciso uscì lo stesso anno di Quarto potere (Citizen Kane, di Orson Welles), precedette di diversi mesi Il mistero del falco (The Maltese Falcon, di John Huston), grazie al quale Bogart conquistava finalmente non solo il ruolo di protagonista assoluto, ma anche dell’eroe positivo (ancorché cinico e ambiguo), Sam Spade, figura archetipica del detective privato che qualifica questo film come l’inizio canonico del genere noir.

Una pallottola per Roy comincia con i titoli di testa che scorrono sullo schermo dal basso verso l’alto per ripiegarsi poi “tridimensionalmente” all’indietro, in modo drammatico, in direzione del massiccio montuoso della Sierra Nevada e, in particolare il suo picco più alto, il monte Whitney, in California: è il luogo in cui terminerà la fuga del protagonista. Una serie di dissolvenze incrociate ci conducono poi all’interno dell’ufficio del governatore, che firma il documento per la grazia di Roy Earle, detenuto da otto anni in una prigione del Midwest. In un baleno siamo nel carcere, dove una serie di brevi movimenti e rapidi di macchina e inquadrature in dettaglio differiscono, ancora per poco, la presentazione dell’eroe. Ed ecco Roy Earle, finalmente libero e sorridente sotto il sole, col cancello della prigione che si richiude dietro di lui (quante volte vedremo, in futuro, una scena come questa? E non è l’unica!). Questo dinamismo in apertura, dato da un perfetto accordo fra movimenti di macchina e montaggio, prosegue poi per tutto il film. Anche se l’azione vera e propria si concentra in particolar modo negli ultimi venti minuti, tutta la prima parte, apparentemente statica e ambientata in un campo per pescatori presso un lago, si rivela invece uno studio di caratteri, di atmosfere, oltre che una prefigurazione del destino accuratamente preparata e sorretta da una tensione costante e palpabile. Una tensione data dalla perfetta alternanza di piani, dal ritmo del montaggio, dalla direzione degli attori. Una regia dinamica e risoluta, quella di Walsh, proprio come il protagonista del film. Bogart nei panni di Earl, da subito s’impone con la sua presenza magnetica, granitica, edificando i tratti fondamentali del suo futuro personaggio, un uomo che non ha quasi mai bisogno di usare la violenza fisica: le sue minacce appena sussurrate più che intimidazioni sono sentenze, come quelle che rivolge a Mendoza (l’attore e futuro regista Cornel Wilde), il loro inside man nel resort pieno di clienti ricchi dove avverrà il colpo. Ma la sua è una doppia natura: duro e inflessibile sul “lavoro”, ma umano e gentile nei confronti dei deboli e dei bisognosi. Durante il suo viaggio, infatti, Roy incontra una famiglia di campagnoli dell’Ohio diretti verso Los Angeles e in più di un’occasione li aiuta nei momenti di difficoltà. Più avanti scopriremo che lui stesso era nato e cresciuto in una cittadina dell’Indiana e che i suoi genitori erano contadini. In questa famiglia c’è una ragazza zoppa di nome Velma (Joan Leslie), che subito Roy prende a cuore. In lei vede la purezza e l’innocenza. Viceversa, Mary (interpretata da Ida Lupino) fa parte della combriccola di complici con i quali Roy deve fare il colpo, è una ragazza che ha preso una brutta strada, anche se non certo per sua scelta. Per questo Roy ha occhi solo per Velma, per ciò che significa per lui (redenzione, l’illusione di poter cambiare vita) ed è disposto a tutto per aiutarla a operarsi al piede. L’oscillare di Earle fra questi due opposti poli del femminino, oltre a costituire una situazione sentimentale di facile presa, serve anche e soprattutto a stabilire la complessità del protagonista: un criminale “per caso” – probabilmente in seguito alla Grande Depressione, dato che era stato arrestato proprio nell’annus horribilis, il 1932 (lo si legge nel documento che il governatore firma all’inizio del film, ripreso in dettaglio con un movimento di macchina in avanti) – che fa di tutto per invertire la rotta. Al tempo stesso, però, rimane fedele e saldo nei suoi principi, a qualsiasi costo.

Un “personaggio” a parte in Una pallottola per Roy è costituito dal cane Pard, che viene introdotto dal custode del campo dei pescatori, l’afroamericano Algernon (Willie Best). Algenon è classica “macchietta” che rispecchia ancora lo stereotipo razzista dell’epoca: strabico, non particolarmente sveglio, incline alla superstizione, Algenon è convinto che Pard porti sfortuna e morte ai suoi padroni, e per questo lui dichiara a gran voce di non considerare suo quel cane. Earle ovviamente non gli dà retta, ma di fatto alla fine sarà proprio Pard, per una pura coincidenza, a farlo uscire allo scoperto e farlo inquadrare così nel mirino di un cecchino. Algernon e lo stesso Pard fungono quindi da elemento smitizzante e da rovescio comico di una vicenda altrimenti cupa e drammatica, un po’ come le commedie di Aristofane che parodiavano le tragedie dei suoi colleghi ateniesi. Una controparte farsesca, che verrà via via sempre meno nei noir classici degli anni successivi. Il destino di Roy Earle è determinato anche dal fatto che si sente un dinosauro in un mondo che gli appartiene più. Nel dialogo con il suo vecchio capo e organizzatore del colpo, Big Mac (Donald MacBride), che giace malato in un letto, i due si confessano l’un l’altro di non capire più l’oggi, con riferimento soprattutto ai giovani ganster, irresponsabili e scavezzacollo, come i complici di Earl. Mentre quelli come loro – i big shot degli anni Trenta – sono ormai tutti morti o rinchiusi ad Alcatraz. Ecco dunque riaffiorare quel sentimento di nostalgia, di attaccamento al passato e alle tradizioni che ha a che fare naturalmente anche con le origini campagnole di Earle: quei valori arcaici, contadini che la città e le sue false promesse hanno definitivamente compromesso. Forse è per questo che, quando la sua faccia compare sui giornali con una taglia altissima, Earle non fa niente per modificare il suo aspetto, continua ad andare in giro a volto scoperto, come se nulla lo preoccupasse. Non è eroismo, il suo, è senso di predestinazione. Lo scacco finale per Earle è inevitabile e lui lo sa, anche se lotta fino all’ultimo momento per evitarlo. Però questa resa dei conti non giunge come una punizione, come avveniva invece per i gangster dei film degli anni Trenta: è invece dolente e affligge lo spettatore, che ha imparato a conoscere e ad amare Earle, a capirne la traiettoria e i sentimenti, anche attraverso il rispetto, l’ammirazione e l’amore che riscuote presso i personaggi principali con cui si trova a interagire. Anche per questo tutta la parte finale è indimenticabile, probabilmente quella che si imprime maggiormente nella memoria del pubblico. La fuga e l’inseguimento avvengono in esterni, sulla montagna, con le auto guidate dagli stuntman riprese dal vivo lungo le strade sterrate e le curve e qualche primo piano di Earle all’interno dell’abitacolo, che non perde mai il suo sangue freddo. Il tutto ottimamente orchestrato e tale da fungere da riferimento per almeno tre decenni. E il finale con l’assedio sulla montagna, che alterna la notte al giorno, al tempo stesso rilancia i finali larger than life dei film di gangser classici proiettandosi però già verso il futuro, a quel cinema dei loser della Grande Depressione che verranno ritratti dai cineasti della Nuova Hollywood a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta.

Info
Una pallottola per Roy, il trailer.

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