La signora della porta accanto

La signora della porta accanto

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Melodramma noir che riannoda Mito e contemporaneità, tòpoi narrativi assoluti e fait divers da pubblicazione popolare, La signora della porta accanto è uno dei tanti capolavori di François Truffaut, caratterizzato da un linguaggio asciutto, sintetico e cristallino, eppure pulsante di spontanei, contagiosi e straripanti eccessi d’amore per il cinema e per la narrazione in senso lato. Indimenticabili Fanny Ardant e Gérard Depardieu, splendido (come sempre) il commento musicale di Georges Delerue.

…ma nessuno chiederà il mio parere

A distanza di otto anni da una passione amorosa che li ha travolti, torturati e poi allontanati, Bernard e Mathilde si ritrovano casualmente vicini di casa di due eleganti villette nella campagna intorno a Grenoble. Entrambi sposati, lui pure padre di un bambino, sulle prime appaiono mossi dalle migliori intenzioni di riallacciare tranquilli rapporti d’amicizia senza mettere al corrente i rispettivi coniugi riguardo alla loro passata relazione. In breve però la passione tra i due si riaccende, così come si riapre un doloroso confronto con la storia d’amore vissuta in passato. [sinossi]

A suo modo, anche La signora della porta accanto (François Truffaut, 1981) è una tragedia del Tempo. È un tema che ritorna nel cinema di Truffaut, e specialmente in buona parte dei film dedicati alla passione amorosa. Tragici protagonisti di uno dei melodrammi più cristallini di epoca moderna, Bernard e Mathilde (ruoli fondamentali nelle carriere di Gérard Depardieu e soprattutto di Fanny Ardant, qui esordiente al cinema) si dannano l’anima in cerca di un punto nel fluire del tempo dove siano entrambi perfettamente sintonici alla passione che negli anni li divora. Eppure il Tempo con loro non è mai clemente. Li tormenta, li allontana, li riavvicina, li distrugge. Jules e Jim (1962) si consumava nella disperante ricerca di un’eterna durata, una contraddizione in termini inevitabilmente votata allo scacco e al fallimento. Le due inglesi (1971) si aggirava intorno ai medesimi spettri scoprendo una dimensione più cupamente fisica e fisiologica della passione d’amore. Come negli altri due casi, anche in La signora della porta accanto c’è una giovinezza che si perde nel Tempo. Solo che in Jules e Jim e Le due inglesi la giovinezza è un Eden idilliaco ai confini del Mito destinato a perdersi nella Storia. In La signora della porta accanto la giovinezza del passato è invece già di per sé tetra e conflittuale, non ha niente che meriti rimpianto, ed è causa della tragedia del presente. Di quel passato condiviso dai due protagonisti Truffaut sceglie di non visualizzare nulla, giusto una goffa fotografia ritrovata dal marito di Mathilde. Perché? Perché il passato è tutto nel presente, nelle parole dei due amanti, incapaci di separarsene, di elaborarlo, di ricominciare a vivere. Non c’è necessità di visualizzare il passato perché esso è materia viva e pulsante dell’infelicità del presente – e i segni sui polsi di Mathilde sono la congiunzione più evidente delle due dimensioni temporali, traccia indelebile nel presente di una lacerazione del passato. Le due dimensioni sono inscindibili, ed è proprio questo a non lasciare scampo ai due protagonisti, che si sono amati male otto anni prima e che adesso si ritrovano per torturarsi a vicenda in una sorta di appassionata vendetta reciproca. La signora della porta accanto finisce nello scacco più completo e straziante. Non vi è la minima gioia nell’amore di Bernard e Mathilde. Dal primo sguardo imbarazzato nello scoprirsi fatalmente vicini di casa a distanza di anni, al potente finale (l’unico possibile) dove il Tempo trova pace soltanto nell’annullamento di se stesso, il penultimo film di Truffaut registra l’affannata ricerca di un equilibrio impossibile da raggiungere e consolidare. Bernard e Mathilde si cercano, si vogliono, e proprio quando si desiderano si respingono – quei telefoni che si trovano reciprocamente occupati, quando il desiderio dell’altro emerge nello stesso identico istante da entrambi i lati dell’apparecchio… Consapevoli di essere tutt’altro che fatti uno per l’altra ma al contempo irrimediabilmente attratti, Bernard e Mathilde vivono l’amore come una vera e conclamata malattia, tale da sfociare in un effettivo stato patologico – il crollo finale di Mathilde. Poi, certo, c’è il Fato, l’amour fou, parole d’ordine di lunga tradizione nella cultura francese.

Ma chi sono quest’uomo e questa donna, vincolati a un destino di invincibile infelicità? Due comunissimi borghesi medio-alti, appartenenti a quella elegante routine quotidiana che molto cinema francese è stato capace di narrare nei decenni. Truffaut sceglie di scartare da Parigi, collocando i suoi due amanti nella provincia francese dalle parti di Grenoble. A Truffaut interessa stavolta un conclamato ambiente borghese, fatto di ville eleganti in campagna e piccole comunità benestanti la cui vita sociale ruota intorno a un club del tennis. Il tradimento, l’infedeltà, l’adulterio sono del resto pura materia borghese, già al centro di un altro capolavoro truffautiano come La calda amante (1964), dove però il melodramma veniva scientemente riletto in una versione grigia, degradata e mortificata dall’ipocrisia, sia pure coronata da un finale perfino più esplosivo di quanto accade in La signora della porta accanto. Con Bernard e Mathilde lo squallore borghese si limita tutt’al più all’alberghetto a ore dove i due si ritrovano, ma stavolta Truffaut è mosso da tutt’altre intenzioni, dal desiderio cioè di elevare a tragedia universale uno degli intrecci più basici e archetipici del feuilleton popolare. È una sfida in tutto pertinente al mondo creativo dell’autore francese: rileggere la classicità tramite una propria moderna coscienza artistica. Truffaut si richiama oltretutto a un tòpos narrativo con ottime radici nella tradizione letteraria e cinematografica francese. Perché oltre a (e forse più di) una storia di cupo e struggente amour fou, il film di Truffaut è anche un noir di provincia, che ricorda al contempo la letteratura di genere, Claude Chabrol (ma ben lontano dalle sue beffarde e glaciali stilizzazioni) e qualche lontano esempio di cinema d’oltralpe come Henri-Georges Clouzot e Jean Renoir. Come piaceva a Renoir, infatti, La signora della porta accanto è un noir passionale che potrebbe essere tranquillamente ispirato a uno dei tanti faits divers dei giornali scandalistici di cronaca nera. Truffaut si riallaccia insomma a tutto un sostrato di cultura popolare francese che ha alimentato varie forme di racconto di immediato consumo – non ultimo, per l’appunto, il consumo di stampa finalizzata a stuzzicare il gusto del macabro di un pubblico famelico.

Bernard e Mathilde non sono una coppia maledetta che trama piani loschi per denaro o potere, o per far fuori qualche scomodo marito, bensì una coppia noir tutta racchiusa nella tragedia dell’amore. La loro vicenda inizia e finisce lì, si giustifica interamente e tautologicamente nella passione senza scampo nella quale sono imprigionati. Eppure, nel fluire del racconto Mathilde si delinea sempre più come una vera e propria dark lady, la cui anima nera giunge addirittura (e questo è un detour post-classico in tutto truffautiano) alla consapevolezza di se stessa finendo in una casa di cura, preda di un esaurimento nervoso. «Pour être aimée, il faut être aimable. Et moi je suis bonne à rien. Bonne à rien. Il y a quelque chose en moi qui éloigne les gens»: fatta la tara al credibile autodisprezzo frutto di uno stato depressivo, Mathilde dà voce probabilmente anche alla sua imperscrutabile anima nera di donna ferita e umiliata da un amore prevaricante subito in gioventù da parte di Bernard. Entrambi si spiano e si cercano, si controllano a vicenda sfruttando la condizione di vicinato, ma è Mathilde a guardare con invidia e rimorso alla felicità coniugale di Bernard, appuntandosi in particolare sul figlio di lui Thomas, personificazione del bambino che a suo tempo, insieme, decisero di non avere (e Mathilde ne soffrì molto in silenzio). Il tema del bambino ritorna più volte, e sempre con note noir, sottilmente dolorose. Basti pensare al libro a fumetti, destinato a un pubblico infantile, che Mathilde sta scrivendo, in cui la donna ha inserito l’immagine perturbante di un bambino con la testa ferita in un lago di sangue – e sarà il marito di Mathilde a rintracciare una somiglianza sorprendente del disegno con il viso di Thomas. Infine, con passo da vera dark lady Mathilde si insinua in casa di Bernard un pomeriggio in cui è presente soltanto Thomas. L’occasione è buona per frugare un po’ nell’intimità di Bernard e sua moglie, ma anche per interrogare Thomas su un concetto adulto come la sofferenza. Invidia, rimpianto, ferite che non cicatrizzano mai: dietro gli occhi scuri di una fascinosissima Fanny Ardant si agita un fiume di dolore che non trova redenzione.

L’amore totalizzante percorre a sua volta la produzione di Truffaut da cima a fondo. Puntano a quello i tre protagonisti di Jules e Jim. Succede di nuovo, in forme diverse, in Le due inglesi. Succede soprattutto nel più estremo dei melodrammi truffautiani, La mia droga si chiama Julie (1969), dove di nuovo mélo e noir si stringono in un abbraccio inestricabile pur concedendosi audacemente uno spiraglio di lieto fine. Si giunge infine alle estreme conseguenze della pazzia con Adèle H. (1975), dove l’amore conduce a un definitivo sprofondamento nell’autodistruzione, non molto diverso da quanto accade a Bernard e Mathilde. A incorniciare la vicenda di La signora della porta accanto in una dimensione di fattaccio di provincia interviene anche lascelta di Truffaut, Suzanne Schiffman e Jean Aurel (i suoi cosceneggiatori) di filtrare tutto il racconto in flashback tramite una narratrice interna, la Odile Jouve di Véronique Silver, proprietaria del tennis, vittima a sua volta di una dolorosa vicenda d’amore, che funge da unica componente di un ipotetico coro tragico. Odile introduce il racconto con un espediente da Nouvelle Vague memore degli esordi di Truffaut. La sua prima apparizione è infatti una vera e propria presentazione alla macchina da presa; Odile occupa un incipit in stile da notiziario e ne adotta il relativo linguaggio da formalità burocratica di medico legale (o da cronaca nera, per l’appunto), come se parlasse a qualche intervistatore televisivo che la interroga sull’accaduto, ma al contempo dichiara a piene lettere che siamo all’interno di una finzione/registrazione parziale del reale. Lo sguardo in macchina è uno dei divieti più convenzionali del cinema classico. Odile Jouve appare invece in scena parlando direttamente alla macchina e dichiarando oltretutto che la macchina mente. È sufficiente scegliere un’inquadratura stretta, o uno specifico taglio di montaggio, per dare una versione incompleta e fallace della verità. Anche la successiva posa di Bernard in famiglia è un’ideale foto che non è mai stata scattata. È il grande scacco della vicenda di Bernard e Mathilde, il grande mistero, il mistero della loro insondabile passione. Si può soltanto cercare di capire, senza giungere mai a una reale comprensione. Il cinema non dà risposte, e nello scacco del cinema classico (che pure è citato e rievocato a piene mani lungo tutto il film) risiede in fin dei conti l’ennesimo requiem intonato da Truffaut in suo onore.

Odile Jouve non è però una narratrice qualunque. Partecipa, e forse è l’unica che comprende fino in fondo. Sopravvissuta a un suicidio d’amore ma rimasta storpia a vita lanciandosi da una finestra in gioventù, ha trovato un proprio compromesso con il Tempo. Come? Benché rischi di passare come la saggia figura che tutto capisce e suggerisce, in realtà il suo destino è amaro forse quanto quello dei due protagonisti. È giunta al compromesso con il Tempo sottraendosi alla vita. Ha evitato le insidie del dolore e della disperazione, ma sostanzialmente smettendo di nutrire speranze per il futuro. Non è una posizione vincente, né saggia. È una posizione di pallida resistenza, per non finire sopraffatti dalla vita. Anche in lei si possono trovare tracce di cinema lontano; viene subito da pensare, per la sua menomazione fisica, alla Simone Simon di Il piacere (Max Ophüls, 1952), sia pure in una lettura del lancio dalla finestra per amore diametralmente opposta a quella di Madame Jouve, dove alla prigionia e al ricatto morale della coppia Simon/Gélin risponde l’orgogliosa reazione di solitudine del personaggio truffautiano. Come più volte Truffaut ha ribadito, La signora della porta accanto richiama umori da patetica canzonetta popolare, come derivati da qualche nota straziante di Edith Piaf. È la stessa Odile Jouve a evocare direttamente Rien de rien, ed è ancora Mathilde, del resto, a constatare la verità e l’efficacia delle canzonette nelle loro banali riflessioni sull’amore. In tal senso Truffaut rivendica più che altrove la matrice popolare del suo cinema, che pur proponendosi come cosciente riflessione sul cinema, sul suo linguaggio e sui suoi strumenti, ha sempre inteso conservare la primaria missione del piacere di fruizione da parte del pubblico – forse uno dei tratti che più lo accomuna al cinema di Hitchcock. Non sarà certo un caso se nel 1962 riguardo a Intrigo internazionale (Alfred Hitchcock, 1959)Truffaut afferma, come ricorda Raffaele Meale nello scritto dedicato a Effetto notte (1973), che «si entri al cinema per caso e che non debbano esserci più categorie di spettatori; che lo spettatore avvertito, quello che vede cento film all’anno, il cinefilo trovi più cose di colui che va al cinema una volta all’anno, è normale, ma il film deve presentarsi esteriormente nello stesso modo per tutti e due».

Secondo la stessa linea di lettura, proprio come in una canzonetta di Édith Piaf La signora della porta accanto propone un Truffaut cupo e pessimista, che in un’unica soluzione non vede vie d’uscita né per la più dolorosa delle passioni d’amore, né per gli strumenti del cinema classico. Eppure, tale requiem prende forma tramite una puntuale e consueta esaltazione linguistica e narrativa assolutamente contagiosa. Sulle orme di un dichiarato atto di resistenza all’invasione dell’immagine televisiva Truffaut sceglie una messinscena essenziale e asciugatissima, tutta centrata sulle figure umane narrate, un atto di semplificazione espressiva scientemente perseguito che tuttavia sposa al contempo un’evidente poetica dell’eccesso. Eccedono le emozioni narrate, sapientemente calibrate dal filtro narrativo apportato dalla funzione testimoniale di Odile Jouve; eccede il commento musicale di Georges Delerue, perfettamente simmetrico nel suo alternarsi di note da melodramma e da polar francese. Eccede la moderna classicità autocosciente di Truffaut, che riannoda i fili dal Mito più antico alla banale quotidianità contemporanea della provincia francese. Eros e Thanatos. Mélo e noir. E in prefinale, due scarpe femminili con tacco a spillo che schioccano a terra, commentate da un minaccioso impermeabile. E un’ombra di donna che scorre lenta e inquieta, proiettata su un muro esterno come in un esperimento di precinema o di cinema delle origini. Tutto si tiene, come capita sempre nei capolavori immortali.

Info
Il trailer de La signora della porta accanto.

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