Effetto notte

Effetto notte

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Speciale Senza il cinema. Con il cinema.
Effetto notte può essere scambiato come il più teorico dei film di François Truffaut, quando invece è quello più apertamente, viscerarlmente sentimentale. Il cinema non è l’oggetto di una speculazione, ma la rappresentazione di un’ideale, dell’utopia di una vita-non-vita in grado di resistere al tempo, alle miserie umane, e persino alla morte. Straordinario atto di devozione verso una tecnica che è l’arto esteso della mano umana, Effetto notte non è il testamento artistico di Truffaut, ma semmai la sua eterna genesi.

Le notti americane

A Nizza si sta girando il film Vi presento Pamela, coproduzione internazionale in cui la protagonista lascia il novello sposo per scappare con il suocero. Regista di questo melodramma è Ferrand, quarantenne francese sordo dall’orecchio sinistro, per cui porta un vistoso apparecchio acustico. Attorno a lui, oltre agli attori e al produttore Bertrand, le maestranze senza le quali il cinema non esisterebbe: l’assistente alla regia Jean-Francois, la segretaria d’edizione Joëll, il direttore della fotografia Walter, la truccatrice Odille, l’attrezzista e trovarobe Bernard, la controfigura, il microfonista, poi sarte, macchinisti, tecnici audio, assicuratori e altri ancora. La lavorazione procede fra non pochi contrattempi: difficoltà finanziarie, questioni tecniche e problemi relazionali, con storie che nascono e muoiono fra componenti della troupe, nell’albergo dove alloggia il gruppo e negli studi “La Victorine” dov’è allestito il set. Ferrand deve così destreggiarsi fra piccoli e grandi drammi. [sinossi]
Do You Have Stage-Fright?
Alphone a Julie in Effetto Notte

“Per la prima volta al cinema… Il cinema. Per la prima volta in un film… Quelli che fanno un film. Per la prima volta la vita privata… Di quelli che non hanno mai una vita privata. Un film sulla verità? Un film sulla menzogna? Un film sulla verità e sulla menzogna!”. Recitava così il trailer italiano di Effetto notte, che arrivò in sala nel settembre del 1973 dopo la calorosa accoglienza primaverile a Cannes, dove fu presentato fuori concorso. Sulla Croisette a concorrere per i premi principali la Francia aveva scelto l’unica opera da regista di Jacques Brel, Far West, l’animazione di Roland Topor per Il pianeta selvaggio di René Laloux (tratto da Oms en série di Stefan Wul), e La maman et la putain di Jean Eustache. Proprio quest’ultimo, messo in relazione con Effetto notte, permette di allargare lo sguardo al punto di svolta in atto nel cinema francese: Truffaut, tra i vertici autoriali della cosiddetta nouvelle vague, si lanciava in un racconto scopertamente meta-cinematografico, ragionando sulla macchina cinema nel suo complesso, sull’architrave alle spalle dell’oggetto-film; Eustache, scarnificava al contrario quella stessa macchina cinema, denudando tanto i suoi protagonisti quanto l’essenza stessa del vivere. Una frattura? Forse, ma non va dimenticato in Non drammatizziamo… è solo questione di corna, avventura che nel 1970 Truffaut regala per l’ennesima volta al personaggio di Antoine Doinel, quest’ultimo quando diventa padre telefona all’amico Jean Eustache. Lo stesso Eustache, dovendo ragionare sulle proprie creature artistiche affermava «I film che faccio sono autobiografici come la finzione può essere», una posizione etica ed estetica non poi così dissimile da molte di quelle espresse da Truffaut nel corso della sua carriera. Qual è allora il punto di rottura, se esiste, del cinema francese nel 1973, quando a Cannes si confrontano a distanza Effetto notte e La maman et la putain? Non si tratta in fin dei conti, anagraficamente, di due generazioni diverse, visto che Truffaut era più vecchio del collega di appena sei anni. In poco più di un decennio, però, il cinema francese è stato rivoltato in lungo e in largo, è stato sezionato e scomposto, segmentato a colpi di tagli in asse, scavalcamenti di campo, eliminazione dei proiettori dai set, dei macchinari eccessivamente costosi, con il ricorso invece alla luce naturale, alle scenografie naturali. L’autobiografismo non come puro atto dell’intelletto ma come coerenza espressiva per essere compresi da tutti in modo non solo simbolico. In una certa qual misura un decennio più tardi la “nuova” generazione di registi (Eustache, per l’appunto, Maurice Pialat, Philippe Garrel, Jacques Doillon, André Téchiné, Marguerite Duras, Paul Vecchiali…) riprese quelle istanze, pur senza stucchevoli riverenze. Truffaut, al contrario, si spingeva a rappresentare la vita nel cinema attraverso la morte del cinema.

Effetto notte fu letto, fin dalla sua prima presentazione a Cannes, come un grande e gioioso omaggio all’arte cinematografica, un inno alle muse della pellicola. In quest’ottica e sull’onda di questo entusiasmo il 2 aprile del 1974 al Dorothy Chandler Pavilion di Los Angeles Truffaut ricevette l’Oscar per il miglior film straniero, “battendo” tra gli altri Fiore di carne di Paul Verhoeven e L’invito di Claude Goretta, quest’ultimo tra i fondatori del cosiddetto “Groupe 5”, base portante del nuovo cinema elvetico che guardava scopertamente alla nouvelle vague. Giovanni Grazzini, ad esempio, scrisse sulle pagine de Il Corriere della sera che il film era «un delizioso omaggio alla magia del cinema». Da grande commediante qual era, in effetti, Truffaut (accompagnato in fase di scrittura da Jean-Louis Richard e Suzanne Schiffman) orchestra una sinfonia aggraziata, quasi comica in alcuni passaggi, dipingendo un affresco umano e professionale ricco, composito, così corale da non poter non smuovere l’empatia del pubblico. Ci sono due interviste che il regista rilasciò nel 1962 e nel 1964, quando ancora il mondo era sotto l’effetto della sbornia della novità, e che permettono di inquadrare la prospettiva morale – e dunque artistica – di Truffaut. Nella 1962 dichiara: «L’altro giorno ho rivisto Intrigo internazionale e mezz’ora prima della fine ho sentito un tale dietro di me dire al suo vicino: “Non è male come film”; è una frase straordinaria perché è rivelatrice della mentalità degli spettatori occasionali, non cinefili; un film non è che della gelatina dopo tutto! Quel tale era uno spettatore difficile, scettico, e diceva: “Non è male come film” e io sono stato contento per Hitchcock. Questo film, Intrigo internazionale, dura due ore, la metà dei piani è truccata in laboratorio o in fase di ripresa, ci sono dei mascherini, delle virtuosità strabilianti, un amore del mestiere e una scienza straordinari. È un film completamente personale, intimo, le ossessioni di Hitchcock, le sue ricerche, ma quel buon uomo, che era entrato là per caso, era obbligato a seguire, era stato conquistato. È una bella cosa. Per me, è questo il cinema. Io credo a questa specie di match. Si hanno immense responsabilità. Credo anche che si entri al cinema per caso e che non debbano esserci più categorie di spettatori; che lo spettatore avvertito, quello che vede cento film all’anno, il cinefilo trovi più cose di colui che va al cinema una volta all’anno, è normale, ma il film deve presentarsi esteriormente nello stesso modo per tutti e due». Due anni più tardi in un certo qual senso rincara la dose, almeno in parte: «Credo sia necessario pensare al pubblico. Non credo più a quell’idea che un tempo mi seduceva – fu Preminger a dirmelo in un’intervista e anche altri cineasti lo dicono – secondo cui non c’è alcun problema con il pubblico: “Se una cosa mi piace, so che piacerà al pubblico”. Non è vero, è più complicato di così e, al momento, la penso in maniera opposta. Credo che un’idea che piace a un artista, per definizione, debba spiacere al pubblico. Perché? Perché l’artista è qualcuno al di fuori della società, e si indirizza alla società. Allora, si tratta di imporre alla gente la propria originalità, e non di andare verso la loro banalità; sì, bisogna ben dire le cose come stanno. Attualmente, credo molto al lavoro che consiste nell’imporre la propria originalità. È un lavoro di persuasione e l’impresa diviene una partita con la gente. Avverto questa cosa ogni volta che vedo uno dei miei film in pubblico. Sento che tale idea scandalizza e che quella dopo passa, che la successiva scandalizza, ecc.». Nessun film, all’interno della filmografia di Truffaut, è una “partita con la gente” quanto Effetto notte, perché il regista costringe il pubblico a uscire per una volta dalla società e a entrare nel mondo del regista, percorso inverso alla prassi, alla regola non scritta. Effetto notte non finge la vita di tutti i giorni di un personaggio ordinario a cui accadono cose straordinarie – la base portante della poetica hitchcockiana che Steven Spielberg regalerà in una linea di dialogo proprio a Truffaut sul set di Incontri ravvicinati del terzo tipo – ma compie il percorso sul lato opposto della carreggiata, dimostrando come quella vita così invidiata sia a sua volta dominata dall’ordinario, dalla quotidianità, e soprattutto dalla vita stessa, dalla finitezza umana.

Effetto notte, scambiato come circo gioioso, forse anche per la splendida ed elegiaca partitura sonora elaborata da Georges Delerue (che guarda a Vivaldi e a Stravinskij), è in realtà un accorato gesto d’affetto verso un mondo professionale prima ancora che artistico, ma anche una riflessione tutt’altro che pacificata sulla morte, e sulla necessità di confrontarvisi anche per chi, come l’artista, vive “fuori dalla società”. Tutto muore, in Effetto notte, anche perché la nascita, come dimostra la gravidanza di Stacey, può persino essere un “problema”. Muore nella finzione Alexandre, ucciso a pistolettate dal figlio cui ha rubato l’amore. Muore nella realtà Alexandre, in un incidente automobilistico. Sta morendo il figlio di Séverine, malato di leucemia. Muore l’amore tra Alphonse e Liliane, che durante le riprese inizia a flirtare con lo stuntman. Muore la stabilità psichica di Julie, non a caso sposata con il suo medico. Muore l’udito di Ferrand, che ha perso l’uso di un orecchio durante la leva militare. Muore infine anche il set, smantellato e muore dunque la troupe, che non è altro che un organismo innaturale, forzato, eppure costretto a sua volta alle sofferenze e alle gioie della vita umana. Ma a morire, sembra suggerire Truffaut, è soprattutto il cinema così come lo si è inteso per decenni. Quasi si trattasse di un’abiura, Truffaut rinnega in Effetto notte gli stravolgimenti della “nuova onda” e si rifugia nel cinema classico, nella sua tecnica. Il titolo, quell’effetto notte che per i francesi si chiama nuit américaine e per gli inglesi molto più pragmaticamente day for night, rimanda a una tecnica che nel 1973 è già desueta, superata, sorpassata. Non c’è più bisogno di fingere la notte quando si può girare senza problemi durante la notte. Non è un caso che il film sia dedicato a Dorothy e Lillian Gish, eroine assolute dell’epoca del muto. Per quanto non sia in nulla reazionario Effetto notte è un film nostalgico, che guarda al passato preconizzando che nulla sarà più lo stesso. Quel cinema, quello in cui un’attrice (nello specifico la straordinaria Valentina Cortese) può declamare dei semplici numeri al posto delle battute che non ricorda perché tanto l’audio si può correggere durante la post-produzione ricorrendo al doppiaggio, non c’è più. Colui che l’ha sostituito è ancora cinema, ma di un’altra pasta, con un’altra prospettiva, senza la stessa ingenuità. Tutta la troupe del film si divide tra ingenui e cinici, non c’è più spazio per altro, e questa frattura – assai più forte ed emblematica di quella supposta tra Truffaut ed Eustache – segnerà in maniera inequivocabile le sorti della Settima Arte, sempre più protesa verso una verità che non può raccontare fino in fondo, perché il cinema non è la rappresentazione del mondo, ma un mondo a se stante. Con regole, strutture sociali e tecniche. Anche per questo lo sfogo di Zénaïde Rossi, nel film moglie del segretario di produzione, appare così virulento: “Ma cos’è questo cinema? Che cos’è questo mestiere in cui tutti fanno l’amore con tutti, in cui tutti si danno del tu, in cui tutti fingono? Ma che cos’è? Lo trovate normale? Ma il vostro cinema io lo trovo irrespirabile! A me fa schifo il vostro cinema, sì, mi fa schifo! Mi fa schifo!”. La gente normale non potrà mai comprendere il cinema, afferma Truffaut: non i film, che magari possono comunque essere seguiti, apprezzati, trovati “non male”. No. La gente normale non potrà mai capire il cinema nel suo complesso, il suo senso organico, la sua struttura, il motivo per cui ci si spinge a fingere la vita per poterla vivere, a oltrepassare le soglie della natura permettendo a un morto di essere ancora vivo – grazie a una controfigura – per morire di nuovo, meglio e in modo più melodrammatico e narrativo, in scena, su un cumulo di neve ovviamente finta. L’elogio al cinema di Truffaut è mortuario, come sarà più volte anche in seguito: si pensi ad Adele H., L’uomo che amava le donne, La camera verde e La signora della porta accanto. Di nuovo, non è un caso che in tre di questi film (Effetto notte, L’uomo che amava le donne e La camera verde) Truffaut si metta a sua volta davanti alla macchina da presa, il modo per denudare la propria verità attraverso l’immagine-cinema, e non la “storia”. Per quanto disillusione vi sia verso il mondo dell’immagine che si sta prospettando, Truffaut trova ancora nell’artigianato del cinema la possibilità di elevare un peana all’umano, alla materia pulsante dell’umano, alla sua straordinaria fragilità. Per questo, nello splendido finale, la macchina da presa ha il diritto di piroettare sui protagonisti, quel corpo unico che si sta disgregando per ricomporsi, in maniera altrettanto imperfetta, su un altro set, in un altro momento, a perpetuare il diritto a una vita-non-vita “fuori dalla società”.

Info
Effetto notte, il trailer italiano.

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