Dune – Parte due

Dune – Parte due

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In un’epoca dominata e quasi desertificata dai campioni disneyani della Marvel, dalla routine dell’animazione in computer grafica e da una dilagante serialità al ribasso, Dune – Parte due è un atto di incrollabile fede, uno sforzo creativo e produttivo in nome dell’unica religione possibile: il cinema. Il film di Villeneuve, come il suo primo Dune o Blade Runner 2049, ci ricorda la sostanziale differenza tra blockbuster e kolossal.

جهاد, lo sforzo teso verso uno scopo

Paul Atreides si unisce ai Fremen e inizia un viaggio spirituale e marziale per diventare Muad’dib, mentre cerca di prevenire l’orribile ma inevitabile futuro di cui è testimone: una Guerra Santa in suo nome, che si diffonde in tutto l’universo conosciuto… [sinossi]
Guarderò in faccia la mia paura.
Permetterò che mi calpesti e mi attraversi.
E quando sarà passata,
aprirò il mio occhio interiore e ne scruterò il percorso.
Là dove andrà la paura non ci sarà più nulla.
Soltanto io ci sarò.

Uno degli aspetti più interessanti di Dune – Parte due, in perfetta continuità col primo capitolo, è l’afflato da arthouse sci-fi. Non una sorpresa, soprattutto alla luce di Blade Runner 2049 e, più in generale, della filmografia di Denis Villeneuve, ma la lieta conferma della fertile ambizione che permea il cinema del regista e sceneggiatore canadese. Non è solo, fortunatamente. Al di là dei soliti compagni di viaggio, da Nolan a Jackson, passando per P. T. Anderson e James Gray, non si scorgono però in questo momento altri possibili paladini di questo cinema smisurato, colossale, impetuoso: in questo senso, il successo di Dune – Parte due non porterebbe con sé non solo la Parte tre, ma potrebbe spianare la strada ad altri fedelissimi della Settima arte e a un rilancio in grande stile della fantascienza. Speriamoci, crediamoci. Perché, in fin dei conti, il progetto di Villeneuve è un atto di fede.

Sperando che il Messia\Muad’dib\Villeneuve non porti le casse della Warner verso la tragedia e la distruzione, guardiamo al secondo capitolo come il coerente proseguimento di un percorso già ampiamente pianificato dal punto di vista visivo e narrativo. Sì, certo, lo script di Dune – Parte due appare più compatto e la messa in scena del deserto dei Fremen vira cromaticamente rispetto all’oscurità che inghiottiva inevitabilmente la Casata Atreides, ma primo e secondo capitolo sembrano quasi riecheggiare la modalità produttiva della Trilogia degli Anelli, come se gli anni non fossero passati e i due film fossero stati girati simultaneamente, back to back.
Mettendo da parte le imprese neozelandesi, guardiamo a un altro secondo capitolo, prodigioso e forse ineguagliabile: L’Impero colpisce ancora. Se i legami tra la saga lucasiana e il ciclo herbertiano sono più che ovvi, al sequel di Villeneuve bisogna riconoscere di aver saputo – come per il film diretto da Kershner – navigare in acque più profonde, complesse, oscure. E se Villeneuve non può (e non vuole) contare sulle mirabolanti invenzioni sceniche della trilogia lucasiana, Dune – Parte due può però dialogare direttamente col mondo contemporaneo, con le dinamiche politiche, sociali e persino religiose della nostra epoca. In tal senso, oltre al realismo delle battaglie e a tutto il discorso imperialista\colonialista, temi che da Arrakis ci teletrasportano idealmente nel nostro Medio Oriente, gli elementi che più ci legano emotivamente alla contemporaneità sono due: Timothée Chalamet\Paul Atreides e Zendaya\Chani. Nei loro corpi, nei loro volti, in queste bellezze figlie di canoni (hollywoodiani) aggiornati risiede forse il segreto di Dune e Dune – Parte due, l’incontro\scontro tra il brutalismo delle architetture e dei mecha e la soave leggiadria dei due protagonisti, eroi, amanti – il tema dell’eroe\non eroe era uno dei crucci di Frank Herbert, vedremo come lo giostrerà in futuro Villeneuve.

L’incedere messianico e sacrale di questo secondo capitolo e la grandeur degli scontri, l’imponenza dei paesaggi e delle architetture, dei vermi delle sabbie (qui però preferiamo dal punto di vista grafico, non di poco, la rilettura miyazakiana Nausicaä della Valle del vento) e le entrate e uscite di scena di numerosi personaggi finiscono per depotenziare alcuni antagonisti e comprimari. Il barone Harkonnen, Rabban e anche Feyd-Rautha sono tratteggiati con cura (pensiamo all’entrata in scena del personaggio affidato a Austin Butler, alle scelte cromatiche della sequenza), al pari delle Bene Gesserit, ma il minutaggio è impietoso nonostante la lunghezza della pellicola. Dell’Imperatore Shaddam IV (Christopher Walken) restano pochi spiccioli, inevitabile vittima della trasposizione dalla carta al grande schermo – il Ciclo di Dune resta un’impresa proibitiva, destinata all’imperfezione. Eppure, nonostante qualche squilibrio e nonostante la sospensione tipica di un secondo capitolo di una trilogia, Dune – Parte due riesce a chiudere un cerchio, a narrare compiutamente una storia, a disegnare un mondo e a prospettarci una moltitudine di pianeti. Villeneuve ci racconta di una jihād distante anni luce eppure così vicina a noi, di un amore travolgente e malinconico, di un messia dannato, del potere invisibile e dei fili che muove, della fede e dei suoi paradossi. Un coming of age dagli esiti infausti. Un futuro passato che guarda a Oriente per rinnovare lo stantio immaginario occidentale.

Info
Il trailer di Dune – Parte due.

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