Blade Runner 2049

Blade Runner 2049

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Sequenze genetiche e binarie, immagini digitali e luoghi reali. Passato e futuro. Sogni, ricordi, memoria individuale e collettiva. Padri e figli. Madri e figli. Creatori e creature, servili e ribelli, consapevoli e inconsapevoli. Questo e molto altro è Blade Runner 2049, cinema replicante che non cerca di clonare, ma che ripercorre filologicamente le strade già meravigliosamente battute da Scott e che aggiorna, espandendolo, questo universo immaginifico e futuribile. Trentacinque anni dopo, lo scenario fantascientifico dickiano è ancora pulsante, fertile, abbacinante, imponente.

C⸋me laç-1me nפּl1a pi⸋§§1a

L’agente K della polizia di Los Angeles (Ryan Gosling) scopre un segreto sepolto da tempo che ha il potenziale di far precipitare nel caos quello che è rimasto della società. La scoperta di K lo spinge verso la ricerca di Rick Deckard (Harrison Ford), un ex-blade runner della polizia di Los Angeles sparito nel nulla da trent’anni… [sinossi]

Il Moloch. Come affrontare sul piano produttivo, visivo e narrativo un tale gigante? Come ripercorrere il sentiero già battuto da un’icona intramontabile? Già, intramontabile. La prima corazza inscalfibile del Moloch è l’eternità, è l’immagine suggerita dei bastioni di Orione, dalle porte di Tannhäuser, dalla morte cristallizzata e indimenticabile di Roy Batty. Il Moloch è multiforme, è la pioggia incessante, è Hong Kong tramutata in una futuristica e soffocante Los Angeles, è la maestosità soverchiante delle architetture gargantuesche e ostili che dominano la città e i suoi abitanti. Come si può pensare di scalfire il Moloch? Di affrontare Blade Runner? Non si può. Denis Villeneuve e il suo – profondamente suo – Blade Runner 2049 non lo affrontano, ma si mettono al servizio della pellicola originale, al servizio di Ridley Scott e di Philip K. Dick, di Deckard/Ford e di Roy Batty e di tutto l’immaginario generato, assimilato, tramandato. Un atto di fede e d’amore. Un’operazione filologica e appassionata. Cinema replicante che non vuole clonare, ma che ha studiato minuziosamente tutti i tasselli di questo caleidoscopico immaginario e che ha trovato una chiave di lettura, una chiave per penetrare nel futuro, un altro tassello da aggiungere. Il film di Villeneuve è un replicante di nuova generazione, consapevole ancor prima di essere creato/generato. Blade Runner 2049 racconta se stesso, la propria genesi: figlio di un calcolo matematico, figlio di un atto d’amore.

Come lacrime nella pioggia. C⸋me lacr1me nella piog§1a. C⸋me laç-1me nפּl1a pi⸋§§1a. Sono passati trentacinque anni da Blade Runner, eppure sembra ieri. Rivederlo annichilisce gran parte della fantascienza precedente e successiva. Anche quella di oggi. Soprattutto quella di oggi. Nell’inevitabile confronto con Blade Runner 2049 bisogna tenere conto pure di questo, della portata rivoluzionaria, del devastante impatto visivo del film di Scott – che tempi: I duellanti, Alien, Blade Runner. La portata dell’impresa villeneuviana non è rivoluzionaria, non può esserlo, il grande schermo non ha dimenticato il 1982. Noi non abbiamo dimenticato il 1982. Eppure è proprio la (perdita della) memoria uno dei grimaldelli usati da Villeneuve: c⸋me laç-1me nפּl1a pi⸋§§1a.
Il tempo dell’immaginario dickiano si intreccia col nostro scorrere più banale: all’immortalità di Roy Batty non possiamo che contrapporre i segni del tempo che hanno marcato il volto e il fisico di Ford/Deckard. Serviva quindi uno scarto, una frattura nell’immaginario, nell’intensificazione tecnologica. Qualcosa che non facesse scappare troppo in avanti il 2049, che desse ancora un senso alla memoria, al futuro passato, ai frammenti, alle parole, alle voci, ai ricordi. La stella polare di Blade Runner 2049 è la sovrapposizione e la coesistenza di diversi linguaggi, codici, realtà: analogico, digitale, virtuale, umano, robotico, replicante. Sovrapposizione e coesistenza di diverse forme di memoria e conoscenza. Come decriptare le laç-1me nפּl1a pi⸋§§1a?

A. C. G. T. Adenina, citosina, guanina e timina. 0 e 1. DNA e codici binari. Blade Runner 2049 si pone e ci pone le stesse domande di Blade Runner. Ma qualcosa è inevitabilmente cambiato, il confine dell’immaginario cyber-punk si è spostato in avanti e le domande si sono adeguate. La vita si è adeguata. Vita di carne, di metallo, di puro calcolo e immagine. Villeneuve scava, cerca e trova i numeri che possono (ri)creare la vita, l’amore. 0 e 1. Due numeri, tre lettere: Joi. Anche una sola: K. I personaggi chiave di questo universo dickiano hanno nomi brevi: Rick, Joi, K (oppure Joe). Perché il punto di partenza, di ritorno e di arrivo di Blade Runner 2049 è l’essenza della vita: quattro lettere, due numeri, un’anima che si dibatte, che vibra, che cerca con forme e strumenti differenti il contatto con un’altra anima. Ghost in the Shell. Her. Animatrix. Il tempo e la fantascienza non sono passati invano.
Il contatto. Una sequenza densissima, tra le tante. La sovrapposizione tra un corpo (replicante) e un ologramma (corpo impalpabile, ma sempre corpo, sempre anima), commovente e straziante come il fantasma angelico e infernale che abbracciava lo scorsesiano Edward “Teddy” Daniels. Immagini e sogni: c’è anche Un sogno lungo un giorno dentro Blade Runner 2049. C’è Sentieri Selvaggi. Come ci sono Elvis, Marilyn e Sinatra, in un’altra sequenza abbacinante. Sogni, memoria, immagini e immaginario: Elvis, Marilyn e Sinatra che si sovrappongono a un’altra icona, una e trina, Harrison Ford, ovvero Rick Deckard/Han Solo/Indiana Jones. Una sovrapposizione che è uno degli omaggi più strabilianti visti sul grande schermo. Gli ologrammi non moriranno mai. Forse.

Villeneuve riesce dove altri avevano fallito. Non deve trovare una collocazione per Deckard/Ford, non è costretto a manipolare la natura di un’icona. Il destino del Deckard del 2049 è diverso da quello dell’ultimo Han Solo (Star Wars: Il risveglio della Forza). La presenza di Deckard/Ford è cruciale, è inscritta nel DNA di questo universo narrativo, nel 1982 come nel 2017, nel 2019 come nel 2049. Da buon eroe noir, Deckard spariglia le carte, è portatore sano di dubbi e incertezze, di (vitale) dolore. Deckard è l’imperfezione della perfezione, è la versione in carne e ossa dei glitch (come l’adorabile Vanellope di Ralph Spaccatutto) che corrompono un sistema solo apparentemente perfetto.
Blade Runner 2049 non è un clone, non copia, non ricalca. Prosegue, allarga lo sguardo, si addentra in altri territori, crea altre porzioni di spazio, altri luoghi in bilico tra passato e futuro – torniano a Elvis, Marilyn e Sinatra e a quel che resta di una Las Vegas monumentale e desertificata. Un’operazione opposta rispetto allo sterile clone live action Ghost in the Shell, pellicola che metteva involontariamente sotto la lente d’ingrandimento la polvere che nel corso degli anni si era posata su quell’immaginario cyber-punk. Villeneuve, semmai, guarda agli originali oshiiani, agli slittamenti tra Ghost in the Shell e Innocence, alle riflessioni e speculazioni sul quel guscio, alla poetica delle bambole, ad altre anime ed esistenze. Come, allargando i confini dello schermo, guarda al felice esperimento di Animatrix, alla contaminazione con l’universo anime, in primis il dittico Il secondo rinascimento (parte 1 & 2) di Mahiro Maeda – in questo senso, la visione dei cortometraggi introduttivi legati a Blade Runner 2049 è caldamente consigliata (2036: Nexus Dawn e 2048: Nowhere to Run di Luke Scott e Blade Runner: Black Out 2022 di Shin’ichirō Watanabe) [1].

Rispetto al 1982/2019, quando l’imponenza delle scenografie e delle architetture abbagliavano lo sguardo e sovrastavano volutamente i personaggi, in questo 2017/2049 i corpi ritrovano centralità, dimensione, forza. Corpi digitali, sintetici, replicanti, modificati, umani e disumani, quasi alieni. Corpi che non cercano una via di fuga – non è più tempo di fuggire – ma che hanno maturato una diversa consapevolezza, anche nella rassegnazione (ancora uno dei cortometraggi, 2048: Nowhere to Run, che restituisce pienamente il senso della scelta di Dave Bautista, il valore della sua performance e le potenzialità di un attore/corpo che sul grande schermo ha trovato una seconda vita artistica). Blade Runner 2049 è un film di corpi, di elementi (i quattro fondamentali, in primi la mutevole acqua), di percezione dell’altro.
Corpi immersi in una città che prefigura scenari ulteriormente disumani, come se la torre di Metropolis di Lang, ma anche la rilettura altrettanto pregnante di Rintarō, incombesse assetata di nuovi schiavi. O le torri-incubatrici di Matrix, altra metafora di corpi sfruttati fino alla consunzione. Riprendendo e adattando le parole di Roy Menarini sull’opera di Scott, «Blade Runner appartiene a Scott quanto a Harrison Ford, a Syd Mead quanto a Rutger Hauer, a Philp K. Dick quanto a Hampton Fancher e David Peoples» [2], possiamo dire che BR2049 appartiene ai corpi di K, Joi, Sapper e Mariette, alla fisicità e al talento di Ryan Gosling (calato in un ruolo davvero congeniale), del sempre più sorprendente Bautista, di Mackenzie Davis (una novella Pris/Hannah), di Ana de Armas (col suo sguardo verso la mdp, verso di noi). Blade Runner 2049 appartiene a Villeneuve quanto a Roger Deakins (col suo lavoro più sulla superficie delle macerie che non sulle – e dentro le – macerie stesse), a Zimmer e Wallfisch, a Fancher e Green. E, ancora e ovviamente, a Ford, a Scott, a Dick e a Syd Mead, che già guidava la mano di Villeneuve in quella grande prova generale che è Arrival.

Note
1.
I tre cortometraggi sono visibili su youtube: 2036: Nexus Dawn, 2048: Nowhere to Run e Blade Runner: Black Out 2022.
2. Roy Menarini, Ridley Scott. Blade Runner, Lindau, Torino 2007.
Info
Il trailer italiano di Blade Runner 2049.
Il sito ufficiale di Blade Runner 2049.
Blade Runner 2049 su Instagram.
La pagina facebook di Blade Runner 2049.
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