Cose che verranno. Utopie e distopie sul grande schermo
La retrospettiva “Cose che verranno” del Torino Film Festival 2016, molto anglofona, forse troppo, ma che ha permesso fertili accostamenti e contrapposizioni: utopie, distopie e scenari che si intrecciano, si sovrappongono, che mutano nel corso degli anni e dei decenni.
Le strade di New York sono cimiteri di macchine, un vuoto spettrale avvolge la Grande Mela. Londra è in fiamme. A Roma, all’Eur, si aggira l’ultimo sopravvissuto, bramato e assediato dai vampiri. Nell’802.701 gli apatici Eloi si fanno sgranocchiare dai mostruosi Morlock. La Terra è un deserto, la Terra brucia, la Terra esplode. Il futuro è domani, forse già adesso, e il tempo scorre inesorabilmente: servirebbe una macchina del tempo, un salvifico paradosso.
Non bastano trenta titoli per inquadrare e soppesare la portata artistica, immaginifica e politica del cinema di fantascienza, ma la retrospettiva Cose che verranno del Torino Film Festival 2015 ci ha offerto un panorama suggestivo di titoli classici, più o meno noti, impreziositi da qualche rarità – il glaciale The End of August at the Hotel Ozone (1967) di Jan Schmidt, It Happend Here (1965) di Kevin Brownlow e Andrew Mollo, The War Game (1965) e Privilege (1967) di Peter Watkins, Quattordici o guerra (1968) di Barry Shear.
Una retrospettiva molto anglofona, Cose che verranno. Forse troppo, ma ha permesso fertili accostamenti e contrapposizioni: utopie, distopie e scenari che si intrecciano, si sovrappongono, che mutano nel corso degli anni e dei decenni. Sugli schermi del Festival si sono alternate le città futuribili, da Everytown de La vita futura (1936) di William Cameron Menzies a quelle più recenti, monumentali e forse insuperabili di Blade Runner (1982, ma anche la Director’s Cut del 1992 e la Final Cut del 2007) di Ridley Scott e Akira (1988) di Katsuhiro Ōtomo. Le città, le architetture, come possibile punto di (ri)partenza; la città come effettiva protagonista delle vicende narrate.
La metropoli costruita ex novo de La vita futura, utopia post-bellica protetta da una caverna, non dissimile dalla città sotto la cupola de La fuga di Logan (1976) di Michael Anderson, deve però cedere il passo nell’immaginario collettivo alle evidenti stratificazioni architettoniche della Los Angeles distopica di Blade Runner e della Neo-Tokyo di Akira. Il futuro non sembra essere Brasilia, ma Hong Kong. Da un lato, le linee essenziali e l’ampia spazialità di una città di fondazione; dall’altra, la memoria urbanistica che si sovrappone, si fonde, mostrandoci avveniristiche torri innestate su fondamenta dimenticate dal tempo, spesso non-luoghi che covano ribellioni.
L’incubo della bomba atomica, di un nuovo olocausto nucleare, trova nelle distruzione delle grandi capitali un meccanismo spettacolare, ma sono le strade deserte e silenziose de La fine del mondo (1959) di Ranald MacDougall, L’ultimo uomo della Terra (1964) di Ubaldo Ragona e La terra silenziosa (1985) di Geoff Murphy la perfetta metafora dello spettro post-nucleare. Case, palazzi, interi quartieri senza vita, senza rumori. Un sogno, un incubo. Harry Belafonte, Vincent Price e Bruno Lawrence sono gli ultimi uomini della Terra, padroni assoluti di un pianeta senza persone, o quasi. Fantascienza dall’afflato umanista, che a un passo dalla fine cerca di ritrovare la fiammella della speranza. Assai stimolante il confronto tra La fine del mondo e il suo quasi-remake La terra silenziosa, pellicole percorse da un forte monito antirazzista: mentre il personaggio di Belafonte, operaio specializzato idealista e pieno di talenti, cerca giorno dopo giorno di ricostruire una piccola porzione di mondo, il pur onesto Zac interpretato da Bruno Lawrence è un neozelandese bianco che ha avuto un ruolo attivo, seppur inconsapevole, nello sterminio dell’umanità. Un rovesciamento che ottenebra il cauto ottimismo di Belafonte e MacDougall, e di buona parte della science fiction cinematografica degli anni Cinquanta/Sessanta.
Nel 1965 Peter Watkins realizza per la televisione britannica il docudrama The War Game. Mentre Brownlow e Mollo avevano ipotizzato con It Happend Here l’occupazione nazista dell’Inghilterra, scovando residui di resistenza etica e morale in uno scenario altrimenti privo di speranza, The War Game affronta con piglio scientifico le ipotetiche conseguenze del bombardamento atomico: i danni diretti dell’esplosione e dell’irraggiamento termico, quelli indiretti delle radiazioni a breve e lungo termine, e poi il caos, le carestie e tutto quel che segue.
Tre pellicole della retrospettiva, L’uomo che visse nel futuro (1960) di George Pal, The End of August at the Hotel Ozone, Il pianeta delle scimmie (1968) di Franklin J. Schaffner, con stili visivi e narrativi assai distanti tra loro, si posizionano narrativamente dopo ipotetiche guerre nucleari. I vivaci cromatismi del Metrocolor di Pal e del direttore della fotografia Paul Vogel si mettono a servizio del viaggio nel tempo di Wells, immaginando ancora delle possibili vie di fuga dall’estinzione umana; il paradosso temporale de Il pianeta delle scimmie, caposaldo della fantascienza distopica e socio-politica degli anni Sessanta/Settanta, ci regala una delle immagini più celebrate e citate della storia del cinema, con Charlton Heston in ginocchio davanti a quel che resta della Statua della Libertà; The End of August at the Hotel Ozone, immerso in una natura indifferente al passaggio delle nove donne superstiti, pone una pietra tombale sulle residue speranze dell’umanità, sempre più simile a una specie selvaggia in via di estinzione. Non ci sono più città deserte da ripopolare o nuovi avamposti da fondare: tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta la science fiction si radicalizza, riscopre la violenza e la barbarie, trova nuovi abitanti per il nostro pianeta – sempre al TFF, ma nel 2014, nella retrospettiva sulla New Hollywood avevamo ammirato su grande schermo Fase IV: distruzione Terra (1974) di Saul Bass, ipnotica pellicola su evolute formiche alla conquista del pianeta.
La violenza colora e impregna molte significative pellicole distopiche del periodo, in un crescendo persino parodistico. Dalle strade brulicanti e pericolose della New York abitata da quaranta milioni di persone messa in scena da 2022: i sopravvissuti (1973) di Richard Fleischer, con la gente che dorme ovunque, anche ammassata sulle scale dei condomini, “Cose che verranno” ci catapulta sull’asfalto impazzito e a basso budget del cormaniano Anno 2000 – La corsa della morte (1975) di Paul Bartel e del cult australiano Interceptor (1979) di George Miller, primo capitolo della fortunata saga di Mad Max e rampa di lancio per un giovane e misconosciuto Mel Gibson.
I vasti paesaggi di Interceptor, soprattutto nel finale, anticipano le lande desertiche dei capitoli successivi, riportandoci agli scenari de Il pianeta delle scimmie, di Fase IV, ma anche del parco a tema de Il mondo dei robot (1973) di Michael Crichton. Gli indizi disseminati lungo le pellicole della retrospettiva sembrano convergere verso due possibili distopie: la prima, alquanto definitiva, guarda oltre l’uomo, prefigurando una Terra dominata da altre specie (le scimmie di Planet of the Apes, le formiche di Phase IV) o da altri esseri (i robot di Westworld, i replicanti di Blade Runner). La seconda, apparentemente meno traumatica, apre spiragli per le nuove generazioni, dai giovanissimi elettori statunitensi guidati da una rock star ventenne nel gioiellino fantapolitico Quattordici o guerra agli esper di Akira, capolavoro della fantascienza cyberpunk. In ogni caso, qualcosa dovrà cambiare…