Il mondo dei robot

Il mondo dei robot

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Riproposto in pellicola dal Trieste Science+Fiction Festival 2018, Il mondo dei robot (Westworld) di Michael Crichton è uno dei classici della fantascienza distopica degli anni Settanta, invecchiato un po’ a fatica, non privo di qualche ingenuità e lungaggine, ma ancora terribilmente affascinante. Memorabile Yul Brynner nei panni – letteralmente presi da I magnifici sette – del pistolero silenzioso e implacabile.

Futureworld

Un parco di divertimenti nel futuro, dove robot dalle sembianze umane sono programmati per far vivere realistiche avventure ai tempi dei Romani, nel Medioevo e nel Far West. Due turisti americani, John Blane e Peter Martin, giungono presso Westernlandia, dove presto si scontrano a duello con un pistolero androide. Il turista ha (inizialmente) la meglio… [sinossi]
1. A robot may not injure a human being or, through inaction, allow a human being to come to harm.
2. A robot must obey any orders given to it by human beings, except where such orders would conflict with the First Law.
3. A robot must protect its own existence as long as such protection does not conflict with the First or Second Law.
Manuale di Robotica, 56ª Edizione.

Si è un po’ arrugginito Il mondo dei robot (Westworld, 1973) di Michael Crichton, eppure resta tra i titoli più rappresentativi della science fiction degli anni Settanta, impreziosito da una lunga serie di intuizioni. In primis, il pistolero Yul Brynner, con gli abiti di scena utilizzati ne I magnifici sette e lo sguardo impassibile, glaciale. Quasi umano. Poi l’incipit in formato televisivo con le (sconcertanti) interviste ai visitatori dei parchi Delos; il paradosso dell’intensificazione tecnologica usata per ricreare una regressione; il risveglio mattutino di Westworld; il ruolo sessuale dei robot femminili, spunto che ritroveremo un paio di anni dopo ne La fabbrica delle mogli (The Stepford Wives, 1975) di Bryan Forbes e che deflagrerà col cyberpunk, da Blade Runner a Innocence e via discorrendo.

Crichton sconfessa le tre leggi della robotica di Asimov e insinua il dubbio di una possibile ribellione delle macchine umanoidi – un leit motiv dello scrittore e regista statunitense che tornerà sui pericoli della tecnologia e della robotica con lo sfortunato Runaway (1984) e che immaginerà col romanzo Jurassic Park un altro pericolosissimo parco a tema.
Westworld, che lascia solo qualche briciola al mondo romano e a quello medievale, è la scintilla di una mutazione sociale che pellicola dopo pellicola assumerà sul grande schermo proporzioni planetarie: dalla disavventura de Il mondo dei robot alla quasi estinzione delle saghe di Terminator e Matrix – in questo senso, The Second Renaissance Part I e Part II di Mahiro Maeda, ispiratissimo doppio prequel della matrice wachowskiana, è una sorta di ideale sequel dello scenario crichtoniano, indubbiamente più calzante rispetto al dimenticabile secondo capitolo Futureworld – 2000 anni nel futuro (1976) di Richard T. Heffron.

In attesa dei miracoli della computer grafica, l’umanità degli anni Settanta doveva guardarsi dalle scimmie, dalle formiche e da Yul Brynner. Le macchine umanoidi diventano «metafora di dissidi sociali e tessuti comunitari che si sfilacciano a causa della sopraffazione di alcuni su altri – qui gli automi sono parte integrante delle sperequazioni e delle distopie in arrivo, come nel luna park di Il mondo dei robot dove gli androidi costruiti per il sollazzo dei turisti si ribellano, o La fabbrica delle mogli, in cui gli uomini di una cittadina trasformano in robot le mogli per ottenere obbedienza» [1]. Una rivolta mancata, soffocata, quella delle macchine. Funziona semmai il contrario, con le mogli sistematicamente sostituite, proprio perché la metafora è fermamente ancorata alla disparità di genere. Ma quello di Crichton è un monito ancora nella sua fase iniziale, embrionale, quasi sospeso: forse in attesa che la robotica faccia ancora qualche passo in avanti, per meglio soppesare le prospettive e i pericoli futuri. Nove anni dopo, una mezza eternità per tecnologia e cinema, arriveranno avversari ben più arcigni e consapevoli del pistolero brynneriano: sono gli androidi di Blade Runner, già (ampiamente) migliori di noi. Pochi anni più tardi, l’Apocalisse: Terminator.

Come hanno giustamente osservato Bandirali e Terrone, «il colore, che nel Grande Stile della fantascienza classica rappresentava un segno inequivocabile dell’intensificazione tecnologica, in molti film di genere dei primi anni ’70 sembra più propenso a esprimere l’inerzia del reale e la crisi del progresso anziché la travolgente affermazione della tecnologia» [2]. Come in altre pellicole del periodo, ne Il mondo dei robot «prevale una luce triste, malinconica, pressoché indifferente alle innovazioni tecnologiche dispiegate nel campo narrativo, e quasi sintomatica della loro caducità» [3]. È quasi sottotono la messa in scena dei parchi Delos, sommessamente tinta di un realismo che non è solo figlio di un budget contenuto, ma è la cartina tornasole di una progressiva perdita di misura e dignità, di un consumismo onnivoro e immorale. Il mondo dei robot fotografa un’umanità impacciata, imbolsita, incapace di interpretare (e arginare) l’intreccio di fili e microchip che si nascondono dietro il volto del pistolero. Nella battaglia tra noi e loro, oltre al duo James Brolin & Richard Benjamin, a sventolare il nostro vessillo è il pacioso banchiere interpretato da Dick Van Patten. La sconfitta è dietro l’angolo.

Note
1. Roy Menarini, Cinema e fantascienza, Archetipolibri, Bologna 2012, pag. 44.
2. Luca Bandirali, Enrico Terrone, Nell’occhio, nel cielo: teoria e storia del cinema di fantascienza, Lindau, Torino 2008, pag. 155.
3. Idem.
Info
Il trailer originale de Il mondo dei robot.
La scheda de Il mondo dei robot sul sito del Trieste Science+Fiction 2018.
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