Intervista a Joanna Quinn
Ospite della 14ª edizione del Ca’ Foscari Short Film Festival l’animatrice e illustratrice inglese Joanna Quinn, tre volte candidata agli Oscar, con Famous Fred (1996), Wife of Bath (1998) e Affairs of the Art (2021). Nata a Birmingham, si forma a Londra per poi laurearsi in Graphic Design alla Middlesex University. Trasferitasi a Cardiff nel 1985, fonda insieme al sodale Les Milles, sceneggiatore e produttore, la casa di produzione Beryl Productions. Beryl è proprio il nome del personaggio che di frequente torna nelle sue animazioni: il primo film che la vede protagonista è Girls Night Out (1987), che consacra Quinn sulla scena dell’animazione internazionale, con un esordio che le vale ben tre premi all’Annecy Animation Festival. La carriera dell’animatrice inglese è costellata da numerosi riconoscimenti, candidature e vittorie agli Emmy e ai BAFTA (con la serie The Canterbury Tales li vince entrambi nello stesso anno, il 1999) e nei maggiori festival d’animazione, oltre alle già menzionate nomination agli Oscar. Abbiamo incontrato Joanna Quinn durante il Ca’ Foscari Short Film Festival.
Come hai concepito il personaggio della signora Beryl che ricorre nei tuoi film d’animazione?
Joanna Quinn: Credo che sia una sorta di simbolica madre ordinaria. Ricorda la mia stessa madre. I miei genitori divorziarono quando ero giovane. Mia mamma aveva un sacco di problemi, ma era sempre sorridente. Era felice di facciata. Volevo creare un personaggio che fosse forte ma non aggressivo. Forte interiormente e tranquillo esteriormente.
E per quanto riguarda la sua collocazione sociale? Lei è una operaia.
Joanna Quinn: È una figura molto riconoscibile, con cui ci si può identificare. Buona parte dell’animazione crea mondi immaginari, situazioni e luoghi fantastici. Io preferisco la realtà, quasi da documentario. Mi piace che la gente si riconosca nei personaggi. Credo di aver realizzato questo.
La ditta per cui lavora è giapponese e si chiama Mishima. Come mai? È un riferimento allo scrittore?
Joanna Quinn: La ditta dove lavora ha sede nel Galles, dove vivo oggi. L’idea iniziale era che fosse uno stabilimento di produzione di torte. All’epoca, negli anni Ottanta, si cercava di attirare le compagnie giapponesi perché aprissero stabilimenti nel Galles, per incoraggiarne il business. Così sorsero molte fabbriche di elettronica. Ed era divertente che si creasse questa sorta di scontro di culture in questa autentica working class. C’erano i gallesi che imparavano il giapponese per lavoro. Volevo così fare una riflessione culturale su quello che stava succedendo nel Galles in quegli anni.
La situazione è descritta per la prima volta in Body Beautiful (1991), che inizia con una musica orientaleggiante e con i titoli di testa in giapponese ad accompagnare quello in inglese. Come mai?
Joanna Quinn: Rientra in questo contesto molto giapponese. Nelle fabbriche giapponesi si voleva creare una situazione sociale anche tra i lavoratori. Così creavano tanti eventi sociali piacevoli per far sì che i lavoratori fossero devoti all’azienda, ma anche per creare un ambiente positivo per far legare i lavoratori. Il film è proprio basato su uno di quegli eventi sociali.
Tra i tuoi modelli sembra evidente ci sia Tex Avery. In Girls Night Out riprendi l’idea del personaggio eccitato, come il lupo di fronte alla spogliarellista, cui escono gli occhi dalle orbite, con l’inversione: sono le donne ad ammirare lo spogliarellista. Anche in Britannia (1993) trovo un debito forte con il grande cartoonist, quando il bulldog diventa più grande del globo terrestre, proprio quello che succede in King Size Canary. Confermi?
Joanna Quinn: Certo e non solo. Quando il cane si gira, in alcuni movimenti veloci, ho usato la tecnica di Tex Avery formattando sette occhi. Era fantastico, così inventivo. Aggressivo, energico.
E in questo film lo stile grafico è decisamente fisico, grezzo come a mostrare il tratto del pennarello. Come mai?
Joanna Quinn: Come a mostrare la trama. Come già in molti miei film precedenti. Non è divertente fare tutti quei disegni. Quello che volevo fare con Britannia era proprio il disegno su carta. Il produttore lo voleva così. Ma devi pensare a quanto ci si mette, tanti colori, tanti strati. L’unico modo per finire in tempo era quello di semplificare, mettere pochissimo colore, non fare sfondi se non molto semplici. Così potevo pensare alla storia senza preoccuparmi del design.
C’è una connessione con questo stile e il rifiuto del digitale?
Joanna Quinn: L’ho usato per il mio ultimo film, ho lavorato davvero col digitale per sei mesi. E ho realizzato quanto mi piaccia in realtà l’atto di disegnare su carta e la fisicità, e l’immediatezza della matita. Non dire al computer cosa fare. È un processo molto più intuitivo per me. Magari per le nuove generazioni è diverso. Ma questo lavoro in digitale è stata un’esperienza perché mi ha fatto cambiare il punto di vista sul perché faccio animazione. Non è solo per il risultato finale, fare un film e poi mostrarlo. Ma è il processo, il piacere di fare e creare fisicamente.
Nel finale di Britannia il bulldog, che rappresenta l’impero coloniale inglese, diventa un cagnolino, che cammina in un contesto multietnico di persone, tra le quali una donna indiana. Cosa volevi dire?
Joanna Quinn: Proprio quello che si vede. Quello che era un bulldog, una potenza coloniale, è ora un cagnolino, un essere insignificante, che attende di sapere cosa fare dall’America. Si trova in una società multiculturale, e alla fine la donna indiana ride. Se pensi a quello che abbiamo fatto in India.
Dopo i cani, i gatti sono protagonisti di un altro tuo film, Famous Fred. Qui usi i colori e lo stile delle illustrazioni per bambini per mettere in scena questi gatti antropomorfi che si esibiscono in un concerto rock. C’è spesso nella tua opera la performance, come lo striptease di Girls Night Out. Qual è la genesi di questo lavoro?
Joanna Quinn: Era basato su un libro, ma comunque ho scritto la storia perché si trattava di un libriccino molto piccolo. Diciamo che una metà è stata quella che abbiamo creato, abbiamo inventato nuovi personaggi. Quindi un altro personaggio che fa una performance, ma stavolta vestito. È stata un’esperienza molto diversa dalle altre. Non lo avrei fatto se non mi fosse stato proposto da una persona che ammiravo molto, John Coates dello studio TVC [cui si deve tra l’altro When the Wind Blows di Jimmy Murakami, N.d.R.]. Era una persona fantastica. E poi ero una grande fan dell’autrice del libro, Posy Simmonds. Inglese ma molto popolare in Francia. C’è stata una mostra su di lei al Centro Pompidou. Lei fa delle strisce per adulti. Un lavoro osservazionale sulla borghesia inglese. È molto divertente. Quando mi ha detto «Ho un libro di Posy Simmonds» ho detto «Sì!», «Ma è un libro per bambini» e allora ero perplessa. Ma è stata un’esperienza. Per la prima volta ho lavorato con un gruppo numeroso, che ho diretto. C’è voluto un mucchio di lavoro per il colore. Ma c’era tanta gente ad aiutarmi, a suggerirmi cosa fare.
Parliamo ora di Dreams and Desires – Family Ties, del 2006. Beryl usa una videocamera per riprendere il matrimonio dell’amica. Tutto il film riproduce i movimenti di una macchina a mano di riprese amatoriali, e il lavoro è notevole. Come lo hai concepito?
Joanna Quinn: È stato un lavoro molto difficile. L’ho ideato con Les Mills, che al momento stava insegnando e mettendo in piedi un progetto per usare la camera a fini terapeutici. Consisteva nel realizzare un videodiario di persone che avevano subito dei traumi. Così ci siamo detti: perché non far fare un videodiario anche a Beryl? Così è nata l’idea del film e l’idea che fosse con movimenti di macchina a mano. Era una combinazione di movimenti di camera di animazione e di uso del software After Effects.
Quando Beryl mette la videocamera sul dorso del cane, legandola con una cinghia, e si vede tutto in quella soggettiva, esclama la parola kinopravda.
Joanna Quinn: Dovevamo decidere a che pubblico rivolgerci e abbiamo pensato che, a un festival, il pubblico avrebbe colto tutti i riferimenti. Abbiamo citato anche Rescued by Rover, di Lewin Fitzhamon del 1905, uno dei primi film narrativi, e Olympia di Leni Riefenstahl.
E poi sul comodino di Beryl ci sono dei libri su Hitchcock, Buñuel e Méliès, come una storia del cinema.
Joanna Quinn: Il film preferito di Les Mills è proprio Viridiana.
Oltre al cinema hai anche dei modelli nel mondo della pittura?
Joanna Quinn: Proprio la settimana scorsa eravamo in America, a Philadelphia, e abbiamo visto Nudo che scende le scale di Duchamp… Dopo che Beryl ha cercato di diventare una filmmaker, nell’ultimo film, Affairs of the Art, vuole diventare un’artista. L’idea era di rappresentare delle donne della working class come lei che vorrebbero fare qualcosa in campo artistico, ma che non riescono per le circostanze di lavoro. Lei avrebbe sempre voluto frequentare una scuola d’arte, come molta gente che riesce a farlo solo a tarda età. E magari hanno del talento, o magari no, ma decidono di volerlo fare. La stessa cosa riguarda la voce di Beryl, la doppiatrice Menna Trussler, che è diventata attrice tardi con gli anni.
Nel film Dreams and Desires – Family Ties, la sposa non riesce a indossare l’abito perché non le sta. Questa è una caratteristica dei tuoi personaggi. Rappresenti anche una fisicità dei corpi, spesso grassi e goffi, reali, tutt’altro che perfetti. Come mai?
Joanna Quinn: Mi piace davvero disegnare i corpi, lo faccio ogni settimana, disegno le figure. Di recente ho lavorato con un pittore figurativo, molto preciso, esponente del fotorealismo. È stato molto interessante lavorare con lui, perché è un perfezionista, è stato difficile lavorare con lui. Ma ho imparato molto. Credo ci sia sempre molto da imparare. Io sto ancora apprendendo ed esplorando nel raffigurare i corpi.