Body Odyssey

Body Odyssey

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Grazia Tricarico esordisce alla regia con Body Odyssey, viaggio nell’universo privato di una bodybuilder che si tramuta in spaesamento onirico, immersione senza bombola d’ossigeno in un cinema panico, fuori dal tempo e dalla facile definizione del corpo come elemento nello spazio. Un’opera sorprendente, brutale, visionaria e di cruda dolcezza.

Il mio corpo ti strazierà

Mona è una bodybuilder di 45 anni, la sua esistenza è una ricerca spasmodica di perfezione e bellezza, ma agli occhi del mondo appare una donna ossessionata da un ideale deforme. Mona è insieme demiurgo e creazione, mano che plasma e materia. Il continuo migrare tra questi poli opposti genera una scissione: quello di Mona è un corpo mutato, che si è esteso fino a diventare un’entità autonoma. Corpo è il suo contenitore inseparabile, il suo più fedele alleato, il compagno che risponde ai suoi lamenti. Corpo è pulsione, desiderio irrazionale, tutto ciò che Mona aspira a diventare. Insieme si ritrovano sulla soglia del compimento del loro destino: completare la trasformazione o arrendersi alla propria natura. [sinossi]

Quando all’interrogativo tutt’altro che peregrino se esista o meno qualcosa definibile oggigiorno come “cinema italiano” non si può non andare con lo sguardo in direzione di un oggetto più o meno traslucido ma in ogni caso mai difforme, sempre univoco nella sua possanza e nella sua prestanza, l’impatto con un asteroide incontrollato come Body Odyssey rischia di rivelarsi fatale, e di produrre sconquassi non indifferenti in quel coacervo di nervi e nervetti cerebrali che uniti al nervo ottico si tramutano in un termine misterico: immaginario. Per dialogare a tu per tu in maniera semplice e diretta con l’opera prima di Grazia Tricarico – che dopo una fin troppo breve sortita in sala (ma la rugginosa situazione del sistema distributivo nazionale non permetteva voli pindarici maggiori) viene proiettato all’interno della cornice di Extramondi, l’indomita rassegna curata da Matteo Scarfò, Catia Demonte, e Giuliano Giacomelli – occorre lavare gli occhi nell’acquaragia, o dimenticarsi almeno per un momento della prassi della produzione cinematografica nazionale. Non è di certo casuale che alle spalle del progetto vi sia Revok Film, la società di produzione fondata da Donatello Della Pepa e Salvatore Lizzio che si muove con cocciutaggine in territori desertici della narrazione italiana, solo occasionalmente occupati da cineasti nomadi, e randomici – il Fulvio Risuleo di Guarda in alto e Il colpo del cane, per esempio, o anche Alessandra Pescetta con il suo 100 preludi –, e viene semmai naturale chiedersi quale destino possa arridere a un cinema che si vuole ripetutamente ridurre a “bizzarria”, quando invece è all’inesausta ricerca di traiettorie personali.

Scava nel profondo di sé e del personaggio principale del suo Body Odyssey Tricarico, che nel mettere in scena la storia di Mona, bodybuilder che sta per fregiarsi del prestigioso titolo di Miss Body Universe e ridefinisce i contorni del suo scultoreo fisico proprio per raggiungere la vetta prefissata, ragiona proprio sull’odissea corporea, sull’organismo come scaturigine dell’io, e viceversa, come wilderness del desiderio, quasi che il duello che fu epicentro della struttura western fosse tutto da combattere su di sé, sulla propria corporeità come rappresentazione dell’ambizione all’altissimo e allo stesso tempo della riduzione all’umano, alle sue naturali debolezze, alla sua finitudine. Con intelligenza Tricarico sposa la centralità dell’umore umano, della carne e del suo tripudio erotico-atletico ricorrendo a trame visionarie proprie della videoarte, come se l’organismo fosse smaterializzato, alla stessa stregua a ben vedere dei sogni deistici di Mona destinati a una lunga serie di revisioni nel corso del racconto (l’innamoramento della protagonista – splendida interprete la vera atleta Jacqueline Fuchs, che aveva già lavorato con la regista un decennio or sono, all’epoca del cortometraggio Mona Blonde, prodotto quando la regista era ancora studentessa del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma – per Nic, un efebico ragazzo incontrato in sauna, segue i dettami del sogno irrealizzato o forse irrealizzabile). Da qui anche il ricorso all’elemento acquatico, trasformativo per eccellenza, in cui il fisico perde la sua naturale pesantezza per galleggiare in un elemento che ne contiene la struttura.

Ed è un cinema compiutamente strutturato, quello di Tricarico, geometrico nella sua dialettica tra architettura asettica e iper-razionale e corporeità deflagrante e irrazionale; c’è la concretezza del cemento, in Body Odyssey, ma anche la porosità di un corpo umano inesatto anche quando cesellato in modo oculato e certosino per ogni millimetro di grasso. Tutto questo impianto risulterebbe in qualche modo in ogni caso normalizzato se Body Odyssey si limitasse a un’indagine sulla mente desiderante di Mona o a una anodina messa in scena del corpo/non-corpo della protagonista: ed è proprio nella qualità di Tricarico di saper sprofondare, un po’ sempre come il personaggio principale, anche nelle zone più ime del subconscio cinematografico, che si può finalmente respirare l’aria di un cinema liberato, privo di vincoli, in grado di osare anche il gesto più evidente, e magari anche lo sconfinamento in territori pericolosi. Naviga in acque alte, Tricarico, e lo fa con una consapevolezza a tratti stordente ma anche con il coraggio di chi sa che si sta sfiorando ciò che le menti benpensanti derubricano a “ridicolo involontario”. Invece proprio lì, in quello spazio liminare in cui ha libertà d’espressione il kitsch, questa parabola metaforica sul crollo del corpo e sulla (ri)nascita rivendica la propria visceralità, la propria naturale orgogliosamente difforme, il proprio orizzonte dorato, sanguigno, violento, fiero dell’esagerazione. Da tempo al cinema italiano mancava una simile glorificazione libertaria ed esasperata del corpo femminile/femminista.

Info
Body Odyssey, un trailer.

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