The Brutalist

The Brutalist

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In concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2024, The Brutalist di Brady Corbet è il manifesto di una chiara e ambiziosissima idea di cinema, distante anni luce da qualsiasi logica mainstream. Più europeo degli europei, già attore per Haneke, Lars von Trier, Bonello, Östlund e Assayas, Corbet mette mano a suo modo a La fonte meravigliosa di Ayn Rand, romanzo già portato sul grande schermo da King Vidor, e ci immerge in un viaggio oscuro attraverso la seconda metà del Secolo breve, dal post-Olocausto agli ultimi scampoli degli anni Ottanta. Creatività, potere, ambizione smodata e una sofferenza che non svanirà mai.

Nascita di una nazione

The Brutalist racconta la storia dell’architetto ebreo László Tóth emigrato dall’Ungheria negli Stati Uniti nel 1947. Costretto dapprima a lavorare duramente e vivere in povertà, ottiene presto un contratto che cambierà il corso dei successivi trent’anni della sua vita… [sinossi – labiennale.org]

Come Faust di Sokurov o The Tree of Life di Malick, ci sono film che hanno un effetto dirompente all’interno di un concorso, anche quando si tratta di Venezia o Cannes. Opere-mondo che colmano di senso lo schermo, la sala, la visione. Tra queste, non numerosissime, ci sembra di poter annoverare senza troppi ripensamenti anche la terza fragorosa regia di Brady Corbet, The Brutalist, pellicola dalla grandeur straripante, fuori tempo e fuori norma. Girato in VistaVision (70 mm un po’ indigesti per le sale veneziane, in costante fuori fuoco), il film rispecchia perfettamente l’ambizione che già traspariva nei due precedenti lavori, L’infanzia di un capo e Vox Lux, qui portata alle estreme conseguenze estetiche e narrative. Una poetica brutalista quella di Corbet, capace di erigere strutture portentose e poi, improvvisamente, di andare dritto al punto con vertiginosi detour. Un film wellesiano, wagneriano, una riflessione sull’arte (anche la propria), sull’ambizione, sul potere e le sue degenerazioni. Una chiusura, forse una pietra tombale, sul Secolo breve de L’infanzia di un capo, sull’Età della catastrofe.

Di luci improvvise e di atmosfere cupe è fatto The Brutalist, fin dall’incipit stordente, con l’arrivo nella Terra dell’abbondanza, l’unica meta possibile prima della Terra promessa, quella Israele che era ai primissimi vagiti e che tornerà inevitabilmente nella storia, nella Storia. Ma la sequenza d’apertura è tutta a stelle e strisce, con quella Statua della Libertà vista da una prospettiva insolita, storta, rovesciata, eppure ancor più reale, esaltante, simbolo (in buona parte ingannevole) di quel che sarà e soprattutto di quello che ci si è lasciati alle spalle. Il prologo martellante di una narrazione espansa, incurante delle logiche distributive e della resistenza spettatoriale, con prologo, atti pantagruelici e infine un epilogo. L’ouverture di una gesamtkunstwerk, di un’opera d’arte totale, totalizzante, che mette in mostra sfrontatamente tutta la sua grandeur, sostenendola in ogni modo, dalla maiuscola performance di Adrien Brody alla spigolosa colonna sonora di Daniel Blumberg (che sostituisce Scott Walker, scomparso nel 2019, giustamente ricordato e omaggiato da Corbet).

La durata espansa di The Brutalist è indissolubilmente legata alla sua natura, all’idea di cinema di Corbet, a questa rispecchiante ricerca e messa in scena della grandiosità, espressa in tutte le direzioni artistiche possibili. La libreria costruita per Van Buren, il successivo grande progetto apparentemente interminabile, la cava dei marmi di Carrara: tutto è smisurato ma mai superfluo, segnato da una necessità che è anche – si chiarirà alla fine – personale, politica, storica. Il peso dell’architettura di László Tóth, la sua portata, è una questione intima quanto collettiva, personale quanto storica: nell’erigere questo gigante di acciaio e cemento armato (che è poi uno dei grimaldelli più subdoli del Capitale), Tóth sacrifica se stesso, il suo rapporto con la moglie Erzsebet (Felicity Jones) e i pochi amici, per lasciare un segno indelebile e gigantesco sul suolo statunitense. Un controcampo di quella Statua della Libertà così ingannevole, simbolo di quel sogno americano che ha ridotto in cenere le speranze di molti – resta sullo sfondo, invece, la questione dell’altra terra promessa, l’Israele della nipote Szofia: in tal senso, The Brutalist sprigiona un lucido antiamericanismo, lasciando fuori fuoco Sion e dintorni.

Il film di Corbet toglie la maschera al capitalismo yankee, al suo malcelato senso di onnipotenza, a quella barbarie che denaro e potere non possono cancellare. L’incontro-scontro tra Tóth e il magnate Van Buren, col suo mecenatismo di facciata, ostentato e volgare, si nutre di quella stessa autoanalisi che alimentava un’altra pellicola smisurata e per molti versi affine: Il petroliere. E c’è infatti, nella smisuratezza del cinema di Corbet, un’ambizione non distante da quella di Paul Thomas Anderson e di altri – non molti – registi in grado di dialogare con la grandezza del cinema classico e con le follie produttive degli anni Settanta. Pensa in grande Corbet, come Tóth, ma a differenza di autori mainstream come Nolan, destinati a scalare il box office, l’ex-attore (è fermo dal 2014) sembra muoversi come un Cimino già consapevole del disastro, di un gigantismo che servirà solo a se stesso e al Cinema. Alla purezza e alla follia del Cinema. Come sostiene lo stesso Corbet, The Brutalist è un «film impossibile». È un Megalopolis focalizzato sul passato.

Salvo improbabili sorprese, The Brutalist non solo mette in scena il punto di scontro, l’incompatibilità, tra cultura\arte e Capitale, ma ne è simbolo e al tempo stesso consapevolmente vittima, agnello sacrificale. Un film, come del resto Corbet, che non appartiene a Hollywood, a quella forma di gigantismo spesso superficiale, ma che guarda piuttosto a forme di immortalità artistica, a prescindere dal pubblico, dal consenso. Non a caso, la vera terra promessa nell’epilogo diventa la Biennale di Venezia – ma siamo negli anni Ottanta, ben prima della conta delle nomination, delle statuette e delle strizzate d’occhio alle piattaforme. L’enigma dell’arrivo (1947-1952) e Il solido nucleo di bellezza (1953-1960) tracciano la genesi di una cattedrale nel deserto, di un’opera che difficilmente può essere compresa; un’opera creata da uno sguardo altro, superiore, generata da una creatività martoriata, stuprata, discesa tra gli abissi, resa folle, ossessiva eppure fertile. Un finto biopic che racchiude idealmente un’infinità di storie. E alla fine, passata la tempesta, superato l’orrore, persino l’Olocausto, restano quantomeno le opere, il simbolo di una rivincita sul Male, sul Potere, sul Capitale.

Info
La scheda di The Brutalist sul sito della Biennale.

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