Don’t Cry, Butterfly

Don’t Cry, Butterfly

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Esordio alla regia per la trentaquattrenne vietnamita Dương Diệu Linh, Don’t Cry, Butterfly mette in scena la solitudine e l’incomunicabilità ricorrendo al rito vuoto, alla metafora volutamente depauperata del suo potenziale, perfino a tracce di soprannaturale. Un’opera piccola e fragile ma non priva di fascino, innervata dall’interpretazione di Lê Tú Oanh. Film vincitore della Settimana Internazionale della Critica 2024.

Spiritelli delle case

Tam lavora con solerzia in una location per matrimoni. Un giorno scopre il tradimento del marito in diretta TV e invece di affrontarlo decide di ingaggiare una potente esperta di rituali magici per riconquistare il suo amore. La figlia di Tam, Ha, riversa le sue frustrazioni sognando ad occhi aperti un luminoso futuro all’estero. Nel frattempo, un misterioso spirito della casa, visibile soltanto alle donne, si annida nelle crepe del soffitto. [sinossi]

I romani avevano i lares familiares, gli spiriti che proteggevano il focolare; nell’antica Grecia era invece Estia, dea figlia di Crono e Rea, a svolgere un compito non troppo dissimile – e sempre dalle parti del Campidoglio si venerava Vesta… In Thailandia, mantenendo un rito animista relativo a quando il Siam non era ancora divenuto un territorio buddhista, si trovano ancora le case degli spiriti, dette San Phra Phum, anche in contesti modernissimi come le aree più centrali di Bangkok. In un modo o nell’altro, attraversando epoche, culture, e religioni, la casa va protetta dai pericoli che si annidano all’esterno, e che potrebbero mettere a repentaglio la saldezza del nucleo famigliare, a partire ovviamente dal talamo. Sotto questo punto di vista è interessante notare come all’interno della narrazione di Don’t Cry, Butterfly, opera prima della vietnamita Dương Diệu Linh, si inizi a insinuare poco per volta il male, sotto forma di macchia sul soffitto che non è però una fastidiosa muffa ma un spirito che possono vedere solo le donne e che crepa letteralmente l’immobile. Una metafora se si vuole anche semplice, ma che la trentaquattrenne cineasta tratta in modo inusuale, giocando a tratti con i registi dell’horror e ovviamente sfruttandola per arrivare al cuore del discorso: non tanto la superstizione, che Ha (la figlia della protagonista Tam) rigetta a favore però di un desiderio di vita “altra” che difficilmente potrebbe trovare una sua realizzazione, quanto il matrimonio come rito svuotato oramai di ogni significato, così bidimensionale da poter essere senza eccessive edulcorazioni materiale da squallidi teatrini televisivi – una verità incontestabile tanto a Hanoi quanto in Italia e nel resto del mondo.

Ecco dunque che in Don’t Cry, Butterfly (il titolo originale Mưa trên cánh bướm dovrebbe essere traducibile con “Pioggia sulle ali delle farfalle”) il rito/mito si trova in una forma dialettica con il suo contraltare contemporaneo, quel piccolo schermo in cui imperversa la vita quotidiana delle persone: è sul televisore che Tam scopre il tradimento del marito, che è allo stadio con la sua amante a vedere la nazionale di calcio vietnamita – quella partita che la maggior parte della nazione sta seguendo sempre al televisore – e viene ripreso dalle telecamere. Dopotutto lei stessa lavora grazie agli schermi, mostrando ai futuri sposi come comportarsi durante le nozze, che sorrisi sfoderare, quale ritmo tenere durante la marcia nuziale. Tutto è confezionato o confezionabile, nel contemporaneo. Tutto è costruito e dunque disfacibile, come la succitata crepa nella casa è lì a ricordare. Aggrapparsi alla comodità del rituale, con tanto di santone chiamato a “purificare” la casa, è un modo per sgravarsi da approfondimenti che metterebbero a repentaglio la tranquillità mentale, o forse quell’accidia innata, quel torpore interiore e collettivo che sembra l’unico connettore di questo racconto sull’incomunicabilità e l’incomprensione reciproca e di se stessi. Non privo di fascino, il film di Dương Diệu Linh finisce però per assumere su di sé gli stessi difetti dei personaggi che porta in scena, e del mondo che tende a rappresentare: per superare il rischio di una difficoltà a comunicare con gli altri si rifugia nell’immagine, nella sua superficie liscia, e per scrutare i suoi personaggi si accontenta della forma, come se questa bastasse a certificarne uno scavo. Così le premesse vengono progressivamente smantellate, e Don’t Cry Butterfly si rifugia nella sua postura digitale che pare pensata più per il mercato occidentale che per incontrare il pubblico locale: restano però delle intuizioni interessanti (dovute in buona parte all’intelligente montaggio di Daniel Hui, uno che di riflessioni sulla società e di “demoni” se ne intende), e ancor più l’eccellente interpretazione di Lê Tú Oanh, donna tradita in cerca di vendetta, o forse solo di ritrovare un senso alle cose andando al di là della vuota prevedibilità del contenitore, sociale e rituale.

Info
Don’t Cry, Butterfly sul sito della SIC.

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