New Berlin
di Aleksei Fedorchenko
Sempre più estroso, chimerico e ampolloso, Aleksej Fedorčenko realizza con New Berlin un’opera teorica sulla metanarrazione che si gioca su matriosche di cinema, e ragiona sul confine tra realtà e rappresentazione. Un film che sembrava impossibile vedere per le varie forme di messa al bando del cinema russo. Eppure, ci possiamo leggere, tra le tante cose, una riflessione sulle società autoritarie, oltre a raccontare di un mondo che sta colando a picco. In concorso alla 49ª edizione del Laceno d’Oro International Film Festival di Avellino.
Benvenuti a ‘sti procioni
In una scuola di cinema un’insegnante spiega subito che il cinema non è realtà. Quindi si discute di vari progetti. Vediamo uno di questi, che racconta della ricerca di un documentarista, Victor, in Colombia, di informazioni su sua zia Bertha, vittima di un misterioso naufragio, della nave Gloria, sparita nel 1956, in una traversata oceanica. Una seconda storia, un film da bobine recuperate da un tassista, racconta di un gruppo di tedeschi nazisti che, dopo la fine del Reich, si è rifugiato in una città sotterranea nell’Antartide, chiamata Nuova Berlino, dove ha passato vent’anni tra rappresentazioni teatrali e adorazione di un gruppo di procioni. [sinossi]
Tutto quello che vediamo dentro a uno schermo non è realtà, è la visione dell’autore, anche nel caso di un documentario. A dirlo è Marina Razbezhkina, peraltro una documentarista, nel suo ruolo di insegnante del VGIK di Mosca, la più antica scuola di cinema del mondo. Lo dice a monito dei suoi studenti, come indirizzo programmatico di quello che sarà il loro lavoro. Questo avviso è posto allo spettatore all’inizio di New Berlin (Новый Берлин), l’ultima opera di Aleksej Fedorčenko, presentata in concorso alla 49ª edizione del Laceno d’Oro International Film Festival di Avellino. Un film, del 2023, altrimenti invisibile a livello internazionale, in quanto finanziato dal Ministero della Cultura russo. Ci piacerebbe umilmente capire, senza alcuna simpatia per la dirigenza politica della Federazione Russa, come mai al contrario Fairytale – Una fiaba di Aleksandr Sokurov sia stato, fortunatamente, visto e anche distribuito in Italia.
Lasciate ogni speranza di realtà o voi che entrate in questo film, come del resto in ogni film. Fedorčenko avvisa così perentoriamente lo spettatore. Eppure, l’affermazione stessa sull’assenza di realtà è inscritta in uno schermo, quindi non reale. Anzi in due schermi perché questa scena con gli studenti si rivela subito dopo come vista nel display di un computer, dalla stessa insegnante insieme allo stesso Fedorčenko. New Berlin è un grande gioco di matriosche metanarrative, di schermi al quadrato che si inseriscono uno nell’altro. Il film racconta principalmente due storie. La prima, “Il mistero delle 500 vergini scomparse” parte proprio da quel dialogo tra l’insegnante di cinema e il regista. Inquadrando la figura di Victor, un anziano allievo, padre di Bertha, una ragazza che pure è studentessa nella stessa scuola, Razbezhkina fa partire la narrazione del suo documentario in Colombia. Insieme alla figlia va alla ricerca di notizie della zia Bertha, scomparsa in un misterioso incidente marino nel 1956, quando la nave Gloria, sulla quale stava compiendo una traversata oceanica, improvvisamente cessò di inviare segnali radio e svanì nel nulla. Vane furono le ricerche di trovare la nave anche come relitto. La seconda storia, “La città dei procioni” parte dalla narrazione dello stesso Fedorčenko che, su una nave che naviga sul mare antartico, racconta di essersi imbattuto in un tassista appassionato di procioni e fondatore di un museo del procione, mentre stava girando un documentario su commissione in Ciuvascia. Il tassista aveva delle bobine, comprate in un viaggio in Bielorussia, che non riusciva a visionare. Vedendo quei nastri, si scopre essere filmati girati all’interno di una città sotterranea in Antartide, dove un gruppo di nazisti ha trovato rifugio dopo la caduta del Reich, fondando una Nuova Berlino. Per vent’anni hanno proseguito la loro esistenza mettendo in scena spettacoli teatrali, rappresentazioni wagneriane, e venerando un gruppo di procioni che hanno preso il posto del Führer. Sono persone che vivono al chiuso, che hanno pareti con finestre che sono però solo dei trompe-l’œil. Depressi con la pelle chiazzata dalla vitiligine, che poi viene sfruttata per maquillage decorativi. Siamo sempre dentro quelle bobine e a ricordarcelo il fatto che una è mancante, quella dello spettacolo “Kyoto Tango”.
Sempre più deciso a intrecciare il presente con epoche storiche diverse, in luoghi differenti e lontani del pianeta, a fare incontrare varie forme d’arte e di rappresentazione, sempre proteso a opere che facciano coabitare e coesistere sguardi alternativi, Aleksej Fedorčenko con New Berlin costruisce una matriosca narrativa fatta di tanti schermi concentrici. Nel primo dei due film nel film, “Il mistero delle 500 vergini scomparse” vengono sempre mostrati o comunque denunciati i dispositivi interni di ripresa, la videocamera di Victor, anche occultata in una borsa, maldestro tentativo di candid camera a dimostrazione che qui la camera non verrà mai nascosta. E poi il cellulare della figlia Bertha che spesso incrocia la camera del padre. Spesso si sente la voce di chi sta riprendendo, e la camera viene riflessa in alcuni specchi. Una visione della città dall’alto sembra essere ottenuta con un drone, ma già i riflessi fanno intuire la presenza di un vetro e si capisce subito di essere dentro la cabina di una funicolare non appena se ne incrocia un’altra in direzione opposta. Succederà anche il furto di una videocamera accesa, con il relativo effetto di ripresa mossa. Sembra non esistere una visione alta, oggettiva, neutra, un narratore esterno e onnisciente. Siamo nel presente, in Colombia, in una società dove tutti sono in grado di riprendere con i telefonini, come ovunque nel mondo moderno.
Il secondo episodio è relativo al passato, a un mondo antico come congelato che rimane quello degli anni Quaranta, con le radio e i ferri da stiro d’epoca. Un mondo di celluloide, un film di bobine rinvenute per caso, dove si perpetua un’altra rappresentazione, molto antica come il teatro. Dove abbiamo le prove di uno spettacolo seguite dallo spettacolo stesso, dalle coreografie davvero originali, nel pieno rispetto dello straniamento brechtiano, con i personaggi disposti come in un gioco di carte su un tavolo in scene che tendono a ridursi in una prospettiva bidimensionale, come del resto fa il cinema in cui la tridimensionalità è solo un’illusione sullo schermo. Una bidimensionalità che coincide, in alcuni di questi spettacoli, con l’orizzontalità della sepoltura in una bara. Sono come teatri di burattini che non vedranno mai l’esterno, il cielo e le nuvole presenti solo in scenografie. Come se anelassero a un’uscita che potrebbe configurarsi come quella di THX di L’uomo che fuggì dal futuro o quello delle due marionette gettate via in Che cosa sono le nuvole?. Sarà poi un’uscita sempre teatrale con un gabbiano imbalsamato, riferimento, come spesso in Fedorčenko, al testo di Čechov. Anche in questo segmento, più limitatamente, vengono esibiti i dispositivi di ripresa, che sono ovviamente, delle vetuste ‘cineprese’, ma anche le macchine fotografiche. Alla fine, verranno svelate le due mdp e i relativi operatori, ringraziati e applauditi, che si riprendono a vicenda con lo stesso meccanismo del primo episodio. Entrambi gli episodi richiamano a cinema o letteratura di genere o ai classici miti del mistero. Il primo al triangolo delle Bermude e alle sparizioni misteriose di navi e aerei, il secondo ai miti dei continenti perduti o delle terre dimenticate dal tempo, ma è evidente anche la derivazione da Underground di Emir Kusturica.
Tutto fa parte di matriosche della finzione, come si è detto. C’è la matriosca della scuola di cinema, quella superiore dell’insegnante con il regista, che inglobano quelle delle storie a loro volta piene di piccole matriosche. Quella più grande di tutte, quella più esterna, è quella della nave che solca le acque ghiacciate antartiche, tra iceberg e pinguini, dove viaggia Fedorčenko stesso, alla ricerca di quella Nuova Berlino sotterranea. Ricerca attivata dalla scoperta di quelle bobine. Oggi passaggio di livello relega un ruolo di finzione maggiore a quello precedente. Il regista torna a esplorare il genere del mockumentary, che già aveva visitato con First on the Moon, che viene citato in quella battuta del pittore, che si tinge i baffetti alla Hitler, che vorrebbe mandare tutti i loro bambini sulla Luna. Si può incrociare quella frase dell’archivista russo di quel film: «Tutto ciò che è successo dovrebbe essere stato filmato. E se è stato filmato allora è successo» con la frase dell’insegnante di cinema di cui sopra. Due concezioni del cinema agli antipodi, come registrazione e come arte, ma, in fondo, la seconda può tranquillamente inglobare la prima. In New Berlin i mockumentary sono due: il primo combacia con l’intero primo film interno, il secondo con il solo prologo del secondo film, quello relativo al recupero delle bobine. I ritrovamenti ‘fortuiti’ di footage, finti, rappresentano un topos del mockumentary, come in Forgotten Silver o in Amore tra le rovine di Massimo Alì Mohammad. I mockumentary possono essere visti come una forma di presa in giro dello spettatore ma, alla luce dell’assunto in base al quale nemmeno i documentari sono realtà, mentre pretendono di esserlo, allora forse sono più onesti i primi dei secondi. E in New Berlin c’è spazio anche, come matriosca piccolissima, per una narrazione folle, da mockumentary, quella del pazzo elettricista del museo convinto che Che Guevara fosse di origine ebraica-russa così come i nativi sudamericani siano imparentati con gli ebrei, come risulterebbe da un’analisi scientifica di comparazione dei rispettivi linguaggi.
Siamo di fronte, con New Berlin, a una gigantesca costruzione sterile basata su un esercizio di stile? È lo stesso Fedorčenko a invitarci a trovare un senso accostando i due film interni, in apparenza completamente diversi, nel pieno spirito del montaggio eisensteiniano. Mettendo in relazione tutti i testi, anche quelli delle matriosche superiori, cosa ne esce? Tornano i centri delle madri, quelle istituzioni che, si scopre nel primo episodio, furono create nella Germania nazista per gestire la procreazione in chiave eugenetica. Uno di questi sopravvive nella Nuova Berlino sotterranea. E in questa realtà distopica, dove perdura il nazismo, sono molto tenute in considerazione le scuole di cinema, e di teatro, proprio come il VGIK del prologo, nell’attuale Federazione Russa, ente statale nato ancora in era zarista e passato sotto tutte le gestioni sovietiche. La tensione a filmare e a produrre arte è una necessità primaria anche al di fuori delle leggi di mercato. Un legame tra la Germania e la Russia è poi rappresentato da Victor, nato a Mosca da padre tedesco e madre russa che si sono conosciuti alle Olimpiadi del 1980. Il film tocca varie date e vari luoghi geografici sensibili, come la Bielorussia. La nave Gloria è scomparsa nel 1956, quando, si dice, era forte la paura per una terza guerra mondiale. In quell’anno Kruscev denuncia i crimini di Stalin, ma ordina anche l’invasione dell’Ungheria. Da poco Castro, citato, si era insediato a Cuba. In due occasioni si fa riferimento ai maoisti e ai trozkisti. La Nuova Berlino finisce nel 1966, l’anno in cui l’Agenzia Spaziale Russa, con Breznev è da poco al potere, quando lancia la prima sonda sul suolo lunare. Nel frattempo, in Cina inizia la Rivoluzione Culturale.
La Nuova Berlino rappresenta una popolazione che tende a perpetuare uno stato di autoritarismo e per la quale l’assenza di un dittatore come Hitler può essere rimpiazzata finanche da un gruppo di procioni. Gli animali tornano nel film, che finisce con quei pinguini probabili testimoni di una civiltà sottomarina che è esistita sotto le loro zampe, un’Atlantide nazista. Oltre a rappresentare il futuro delle dittature, sembra che possano rappresentare il futuro del cinema. Bertha, in quell’aula del corso di cinema in cui è presente anche un coniglio, vorrebbe fare un documentario sui panda, inserendosi nella loro società con metodo wisemaniano. Lei che non farà che disturbare la lavorazione del documentario del padre Victor, lei che svelerà che il modellino della nave Gloria è in realtà quello del Titanic. E nella Nuova Berlino sottomarina ci sono delle crepe da cui comincia a infiltrarsi acqua. New Berlin, che finisce tra gli iceberg, sembra così una grande metafora di un mondo che sta colando a picco. In questo gioco di matriosche e mockumentary finisce per suonare come un ulteriore sberleffo quel logo iniziale del Ministero della Cultura della Federazione Russa. Usciamo anche noi dalla matriosca della recensione per una considerazione più ampia. Un film come questo va ben oltre le circostanze politiche in cui è stato realizzato e comunque l’opera d’arte si svincola dal suo autore e dalla sua eventuale vicinanza a un regime. Di fronte a un’opera così pirandelliana, ricordiamo che Pirandello aderì – purtroppo – al Fascismo, ma rimane uno degli autori più rappresentati nei teatri di tutto il mondo. Così è, se vi pare.
Info
Una scheda di New Berlin.
- Genere: drammatico
- Titolo originale: Novyy Berlin
- Paese/Anno: Russia | 2023
- Regia: Aleksei Fedorchenko
- Sceneggiatura: Aleksei Fedorchenko, Denis Osokin, Oleg Loevsky
- Fotografia: Alisher Khamidkhodzhaev, Daria Ismagulova
- Montaggio: Daria Ismagulova
- Interpreti: Aleksei Fedorchenko, Daria Konyzheva, Georges Devdariani, Irina Ermolova, Irina Plesnyayeva, Konstantin Shavkunov, Maksim Tarasov, Marina Razbezhkina, Sergei Kolesov, Sergey Fyodorov, Yuliya Aug
- Colonna sonora: Andrei Karasyov
- Produzione: 29th February Film Company
- Durata: 126'