Chi l’ha vista morire?

Chi l’ha vista morire?

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Realizzato in una nebbiosa e crepuscolare Venezia magnificamente restituita, Chi l’ha vista morire? di Aldo Lado non si limita a proporre una variazione sul tema del giallo italiano anni Settanta, ma rilegge il racconto di suspense e spaventi secondo strumenti propri, perlopiù sorretti a umori e suggestioni ambientali. Indimenticabile il commento musicale di Ennio Morricone, perfettamente congeniale a uno dei migliori gialli italiani del periodo.

Vestito per uccidere

Dopo aver commesso un primo infanticidio nel 1968 in una località francese in mezzo alle nevi, quattro anni dopo un serial killer si sposta a Venezia e prende di mira Roberta, figlia di una coppia separata che ha raggiunto in laguna il padre Franco Serpieri, scultore in procinto di organizzare una mostra personale. Roberta viene prelevata e uccisa mentre sta giocando in cortile, e Franco, divorato dai sensi di colpa, si mette a indagare per conto proprio, sostenuto da alcuni amici e da Elizabeth, madre di Roberta giunta a sua volta a Venezia dopo la morte della figlia. Tratto comune degli omicidi pare essere il colore rosso dei capelli delle bambine uccise, mentre i sospetti si appuntano fra gli altri su Sarafian, potente mercante d’arte che si sta occupando anche della mostra di Franco. [sinossi]

Venezia decade, Venezia è morente. È morente pure la psiche umana, torturata da turbe e ossessioni che sfociano nell’infanticidio. Ed è morente a sua volta una società alto-borghese, ricca e alienata, che percorre solitaria le calli della città lagunare come emanazione fantasmatica sopravvissuta a se stessa, avviluppata in un oscuro groviglio di interessi personali. Per Chi l’ha vista morire? (1972) Aldo Lado e i suoi sceneggiatori scelgono Venezia come teatro di un giallo all’italiana. Nativo di Fiume, Lado conosce bene la città poiché ci è cresciuto. Il film mostra in tutta la sua evidenza questo senso di familiarità, utilizzando almeno per una volta la Serenissima non come elegante sfondo cartolinesco, bensì come vivo cuore pulsante di una vicenda narrata. È anche una sorta di ultima Venezia popolare, colta nelle sue abitazioni, nei suoi negozi di quartiere, prima dell’invasione internazionale del turismo di massa. Del resto è proprio uno dei personaggi del film, l’amico giornalista, a sancire la fine di Venezia, quantomeno della Venezia animata da una vera popolazione locale. Sarà svuotata, dice il giornalista, a poco a poco non ci sarà più nessuno. La location lagunare riscuote particolare successo lungo tutti gli anni Settanta. Morte a Venezia (Luchino Visconti, 1971) apre le danze a inizio decennio insieme ad Anonimo veneziano (Enrico Maria Salerno, 1970). Poi seguiranno, fra gli altri, A Venezia… un dicembre rosso shocking (Nicolas Roeg, 1973), Anima persa (Dino Risi, 1977), Ritratto di borghesia in nero (Tonino Cervi, 1978). Generalmente la città si presta a letture cinematografiche improntate alla decadenza, al melodramma funereo, al giallo misterioso dalle venature psicotiche con qualche sconfinamento nell’horror, qualche volta alla perversione borghese. I mille imperscrutabili angoli di una città labirintica si prestano bene a tali racconti. Chi l’ha vista morire? si allinea a questa tendenza, espandendo su massima scala lo sfruttamento di Venezia come teatro di misteri in cui le linee orizzontali e verticali di imprevedibili architetture confondono qualsiasi tentativo di lettura univoca della realtà. Basti pensare alla magistrale sequenza girata al Molino Stucky, un prestigioso dedalo all’epoca in disuso, gioiello architettonico della Giudecca, in cui i personaggi si seguono, si spiano, si minacciano. Lo sguardo del personaggio non è mai del tutto soddisfatto; c’è sempre un angolo, una trave, una colonna che possono nascondere qualche minaccia. Esemplare anche nella scansione del montaggio, la sequenza è una sorta di sineddoche dell’intera vicenda, in cui ogni svolta di strada può contenere un nuovo pericolo. Primo fra tutti, il/la temibile serial killer di bambine dai capelli rossi, che prendendo le mosse nel 1968 da una località francese di montagna si sposta poi quattro anni dopo in laguna per compiere i suoi efferati delitti.

Fin dalle prime battute l’assassino appare sotto vesti antiquate e ridicole. È una vecchia signora con cappellino e veletta. Con soluzione decisamente originale la veletta serve spesso da filtro alle sue frequenti soggettive. Lado ricorre pure a uno stratagemma espressivo che riscuoterà un discreto successo nel giallo italiano dell’epoca, quello di mostrare il volto dell’assassino (o un suo dettaglio) in inquadrature di durata subliminale. Qui accade in un paio di occasioni nei controcampi di soggettiva. Il Maestro Dario Argento farà lo stesso qualche anno dopo con Profondo rosso (1975). Vi è invece una comunanza un po’ più intima con Non si sevizia un paperino (Lucio Fulci, 1972) che arriva in sala qualche mese dopo il film di Lado. A tenerli insieme è il tema comune dell’infanticidio, tanto che uno sembra la risposta dell’altro ai due capi geografici e culturali dell’Italia – alla nebbiosa ed elegante Venezia di Lado risponde il profondo Sud arretrato e superstizioso di Fulci. Con discreta presa di distanze dalle coeve pratiche di genere di casa nostra Lado e i suoi sceneggiatori (Massimo D’Avack e Francesco Barilli, autori del successivo e mirabile Il profumo della signora in nero, 1974) sembrano anche voler articolare il proprio racconto affondando le radici del giallo in un sostrato sociale di qualche spessore. Se sulle prime infatti Chi l’ha vista morire? pare aderire ai consueti canoni del genere limitando l’orizzonte omicida a una canonica tara psicopatologica, in un secondo momento il film di Lado imbastisce una decisa contrapposizione fra due sociosfere tratteggiate con apprezzabile perizia. Da un lato, il mondo del protagonista Franco Serpieri, scultore, interpretato da un quasi irriconoscibile George Lazenby, smagrito e capellone, reduce dalla sua unica esperienza nei panni di James Bond in Agente 007 – Al servizio segreto di Sua Maestà (Peter R. Hunt, 1969) e destinato a sparire presto dai radar cinematografici. È un mondo di artisti e alternativi, fieramente (auto)emarginati dal sistema sociale, che tengono anche un rapporto libero e spregiudicato nei confronti dell’amore e del sesso – i genitori della piccola vittima Roberta vivono separati ma si amano ancora, senza vietarsi relazioni con altre persone. Si direbbe che sono scampoli della generazione contestataria, individuata sia in dandy bisessuali che si occupano d’arte (il personaggio di Filippo Venier incarnato dal fassbinderiano Peter Chatel) sia in giornalisti vestiti di bianco con sciarpette al collo. Dall’altro lato si compone invece una schiera di ricchi borghesi, che pure affermano di non guadagnare troppo con il lavoro ma che si concedono vite di agi e benessere, e che soprattutto nutrono deviate abitudini sessuali e in qualche caso pure gravi e aggressive psicopatologie. Benché Franco provi grande senso di colpa per il rapporto consumato con l’amante Patrizia al momento della scomparsa di sua figlia Roberta, la condotta sessuale più riprovevole è tutta appannaggio della sponda alto-borghese, che deflagra in tutta la sua evidenza nel filmato amatoriale ritrovato in prefinale, dove alla perversione erotica si accompagna pure l’uso di eroina. Così, stavolta gli atti dell’assassino non si riducono a unico motore della vicenda, bensì si inscrivono in un discorso più ampio intorno alla prepotenza borghese di cui la follia omicida costituisce un tassello, il più violento, atroce e malato. Sembra anzi che davanti agli indagatori improvvisati (Franco, Elizabeth e i loro amici) si innalzi un muro compatto di omertà borghese, durissimo da scalfire, irrobustito da sempiterni interessi economici.

Grande orchestratore dell’intreccio è il Sarafian di Adolfo Celi, mercante d’arte cinico e potente che manovra intorno a sé una serie di personaggi tenuti soggiogati, salvo poi trovarsi a sua volta vittima di ricatto. Dopo una prima parte in cui l’omicidio di Roberta incombe in più sequenze caratterizzate dallo spiare in soggettiva da parte dell’assassino, Chi l’ha vista morire? rilegge la suspense da giallo in senso molto personale, limitando a poche sequenze l’esecuzione degli omicidi e affidando molto del suo fascino alle location scelte per le indagini dell’improvvisato detective Franco Serpieri. È una suspense di suggestioni ambientali, punteggiata da sporadiche esplosioni di violenza grafica. E quando esplode, Lado squaderna un talento unico nella composizione dell’inquadratura, nell’intarsio del montaggio, nell’uso accurato di luci, ombre e squarci di buio. Il commento musicale fornito da Ennio Morricone in questa occasione è ormai proverbiale nella sua caratura ossessiva e paranoide, un coretto di voci infantili rimanipolate in studio con risonanze di canto chiesastico e sorrette a un tetro basso continuo di matrice elettronica. La musica accompagna i passi del serial killer dando luogo a un’eccezionale consonanza fra colonna video e audio. Fra le varie memorabili sequenze, basti ricordare l’aggressione in prefinale ai danni di Elizabeth, allungata nei suoi tempi fra l’atrio dell’appartamento di Franco e la fuga in chiesa. Prodotti come Chi l’ha vista morire? furono a suo tempo catalogati come rapide occasioni di sfruttamento commerciale di un filone ormai popolarissimo. C’è del vero, quantomeno nel progetto produttivo a monte, ma il film di Lado mostra più di molti altri la totale inconsistenza delle facili spartizioni fra serie A e serie B del cinema. Chi l’ha vista morire? si erige infatti a testimone di uno sguardo intensamente autoriale, personale, che si distanzia con profondità dal puro e semplice meccanismo di giallo e suspense fine a se stesso. Appartiene semmai più strettamente al canone del giallo italiano anni Settanta la motivazione del serial killer. Come spesso accade in quegli anni l’origine della follia omicida è da rintracciarsi infatti in un rapporto malato con la figura materna, di cui si rifiuta visceralmente la tendenza ai facili costumi. Stavolta il rifiuto della madre è tale da spingere l’assassino ad assumerne gli stessi tratti in versione ridicola e grottesca, aderendo a un’idea di carnevalizzazione del femminile che ne mortifichi le specifiche peculiarità in termini di attrattività e fascino. Il modello di Psyco (Alfred Hitchcock, 1960) è più che evidente, ma del resto si tratta di un archetipo che informa molto del cinema di genere, non soltanto italiano, dalla comparsa del film del Maestro inglese in avanti. Vi è invece da registrare che nella rilettura italiana la psicopatologia omicida si accompagna spesso al tema ricorrente dell’omertà familiare, tratto espressivo decisamente raro nelle cinematografie di altre latitudini. È una caratteristica tutta nostra, che più autori fanno propria rispondendo più o meno consapevolmente a un tipico attributo socio-antropologico pertinente a tutto lo stivale. Il clan familiare all’italiana prevede infatti la tutela di se stesso contro ogni ragionevolezza (in ambito cinematografico, basti pensare al nobile esempio di Rocco e i suoi fratelli, Luchino Visconti, 1960), e nel giallo dei Settanta capita spesso di imbattersi in genitori, figli o fratelli che fanno di tutto per nascondere i delitti di qualche congiunto, fino ad assumersene la responsabilità – accade lo stesso pure in Non si sevizia un paperino e Profondo rosso. Cosicché allo scopo principale di intrattenimento del pubblico, e a qualche occorrenza di affondo sociale come nel caso di Chi l’ha vista morire?, talvolta fra le righe del cinema di genere si finisce per scovare qualche cartina di tornasole della nostra cultura più radicata e ancestrale. Mentre si ha modo di apprezzare un irripetibile spettacolo di inquietudini e spaventi, impaginato con maestrie professionali ormai perdute.

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Un trailer di Chi l’ha vista morire?.

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