Bekas

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Riprendendo ed estendendo lo spunto di un suo cortometraggio, Karzan Kader racconta il viaggio di due ragazzini curdi verso la loro versione del Sogno Americano. Bekas unisce un respiro internazionale al vigore di una pellicola di Bollywood.

Di sogni e di (super)eroi

Siamo nel Kurdistan iracheno, nei primi anni ’90: Zana e Dana, rispettivamente 7 e 10 anni, sono due fratelli orfani e senzatetto, che sopravvivono in strada lucidando scarpe ai passanti. Un giorno, sbirciando attraverso un buco nel muro di una sala cinematografica, i due vedono in azione Superman: colpiti dalle gesta dell’eroe, decidono di andare in America per incontrarlo. Con una lista di cattivi da punire da consegnare a Superman, Zana e Dana si procurano un asino, con cui iniziano la traversata del deserto… [sinossi]
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Arriva in Italia con tre anni di ritardo, dopo un fugace passaggio al Giffoni Film Festival, questo Bekas. Arriva quando il tema trattato (la situazione politico/sociale del Kurdistan iracheno) è di nuovo sotto i riflettori dei media, seppur per ragioni diverse da quelle descritte nel film: al nemico di quei primi anni ’90, Saddam Hussein, si è sostituita la ben più insidiosa minaccia dell’Isis, di un fondamentalismo cieco e, nei fatti, ancor più violento del deposto dittatore. Ora come allora, l’occidente balbetta, da sempre forte con i deboli e debole con i forti; ora come allora, a farne le spese è la popolazione civile di quelle regioni. È in parte ispirandosi alla propria esperienza personale (esule dal Kurdistan, con la sua famiglia, a sei anni) che il regista Karzan Kader ha sviluppato la sceneggiatura del film; tradotta dapprima in un omonimo cortometraggio (datato 2010) ed in seguito “estesa” qui. Al centro, due fratelli orfani, di fatto in fuga (ma loro lo considerano un emozionante viaggio) verso un sogno americano incarnato dal più iconico dei supereroi, sbirciato in pochi fotogrammi di visione “rubata” in una sala cinematografica. Tra loro e la meta sognata, fantasia e realtà, rudi alleati e nemici subdoli, l’incrollabile fiducia dell’infanzia e la crudele necessità di crescere tra armi e miseria.

Malgrado i temi trattati, bastano pochi fotogrammi per rendersi conto che Bekas ha poco degli stereotipi tradizionalmente associati alle pellicole prodotte in Medio Oriente; e che lo sguardo del regista vuole avere un respiro internazionale, capace di parlare, trasversalmente, a segmenti di pubblico diversi, per età, attitudini, storie. Quello del viaggio, d’altronde, è tema universale per eccellenza; così com’è universale l’esplorazione dell’infanzia, la scelta narrativa di mettersi “ad altezza di bambino”, l’idea del romanzo di formazione, l’abbandono della terra come metafora di crescita. Il film dell’ex-bambino esule Kader vuole riflettere, nella sua messa in scena, la vitalità a tratti strabordante dei suoi due protagonisti; il villaggio in cui Zana e Dana crescono, malgrado sia composto, di fatto, da poco più di qualche casa in mezzo al deserto, è vibrante e sciamante vita quanto una metropoli occidentale, pullulante di esistenze che collidono spesso e volentieri tra loro, formando una polifonia un po’ stonata quanto irresistibile nella sua vitalità. In tutta la sua prima parte, quella che precede la partenza dei due ragazzi, il film ha l’estetica e il vigore figurativo di una pellicola di Bollywood, solo casualmente priva di numeri musicali, ed immersa nella consistenza sabbiosa di una fotografia virata al giallo ocra.

Solo successivamente, il ritmo rallenta, quando le strette strade e i vicoli del villaggio lasciano il posto alle sconfinate distese di sabbia che, nel progetto dei due ragazzi, dovrebbero condurli nella “loro” America. Una strada immaginata con tutto il potere simbolico della fantasia di due ragazzini, letta su una carta geografica che i due non sono minimamente in grado di interpretare, talmente avulsa dalla realtà da essere effettivamente, e senza grandi difficoltà, percorsa. Le visioni di Superman che punisce i cattivi e resuscita i defunti genitori si alternano a irruzioni improvvise, violente nella loro imprevedibilità, della realtà: il viaggio, malgrado tutto, sarà anche e soprattutto crescita, presa di coscienza di sé e della propria storia, quella personale e quella di un’intera comunità. In mezzo, incontri e scontri, asini da soma con nomi di cantanti e bottigliette di Coca Cola che fanno pregustare la terra sognata, dissidenti devoti e qualche sana, e inevitabile, lite tra fratelli. Qualche motivo viene inopinatamente lasciato cadere dalla sceneggiatura (l’infatuazione del fratello più grande per la coetanea persa, e poi ritrovata) mentre alcuni passaggi narrativi rendono forse più ardua del dovuto la sospensione dell’incredulità. Quello che il regista mantiene ben fermo, pur in qualche incertezza di script, è il focus, lo sguardo, l’ottica sul mondo: quella dei due giovani protagonisti, presi per mano e seguiti con coerenza nella loro evoluzione. E alla fine, nessuno dubita che quel viaggio (a prescindere dal raggiungimento della sua meta fisica) sia stato non solo valevole dello sforzo, ma addirittura necessario.

Info
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