Les filles du soleil

Les filles du soleil

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Con Les filles du soleil, in concorso a Cannes 71, Eva Husson vorrebbe raccontare il senso di orgoglio e di riscatto di quelle donne curde che hanno imbracciato il fucile contro l’Isis. E, invece, trasforma il suo film in una maldestra storia di vittimismo, tutta rivolta al passato della protagonista, una Golshifteh Farahani per nulla credibile nei panni della leader delle combattenti.

Il senso della lotta

Da qualche parte in Kurdistan. Bahar, comandante delle Figlie del Sole, un battaglione di donne soldato curde, sta per riconquistare la città di Gordyene, dove era stata catturata dagli estremisti. Mathilde, una giornalista francese, copre i primi tre giorni dell’offensiva. Attraverso l’incontro di queste due donne, il viaggio di Bahar viene ripercorso da quando gli uomini in nero irrompono nella sua vita. [sinossi]

A Cannes quel che aveva rappresentato due anni fa Il tuo ultimo sguardo di Sean Penn lo incarna in questa edizione settantunesima Les filles du soleil. Non stiamo parlando solamente dei film peggiori della selezione del concorso ufficiale passati negli ultimi tempi, ma anche di un modo di affrontare questioni delicate – e un tempo si sarebbe detto terzomondiste – con sguardo superficiale, previa anodina produzione internazionale, assoldando star estranee che faticano a calarsi in quel contesto, non entrando mai davvero a contatto con quel mondo e finendo per svilirlo in una messinscena semplicistica e in una visione politica elementare, se non nulla.

La francese Eva Husson affronta il tema caldo – e sin troppo recente – delle combattenti curde nel suo Les filles du soleil, dandogli – almeno nelle intenzioni – una coloritura da #timesup, la recente campagna contro le molestie sessuali guidata dalle star hollywoodiane. E, visto che come presidente di giuria, c’è Cate Blanchett, il film pare essere un serio candidato alla Palma d’Oro. Eppure, vogliamo credere di no, vogliamo credere che non sia possibile che accada, che non si tenga conto solamente del tema affrontato – tra l’altro malissimo e non centrato – ma anche del modo in cui questo tema viene raccontato e messo in scena.
La Husson riesce comunque a far iniziare il suo film in maniera interessante, e quasi promettente: ci mostra la fotografa di guerra interpretata da Emmanuelle Bercot in attesa di raggiungere il fronte in cui i curdi combattono contro l’Isis (che tra l’altro non viene mai nominato). L’intenzione della fotografa è quella di conoscere delle militanti curde e seguirle nei loro combattimenti.
Impostando il discorso in questo modo, Les filles du soleil dà dunque l’impressione di non voler ambire a identificarsi con quelle donne che hanno imbracciato i fucili, ma di usare la Bercot come strumento per accedere in quel contesto, e dunque quale tramite per l’identificazione spettatoriale. Eppure, quell’incipit, che tra l’altro rievoca per certi aspetti l’attesa paranoica di una nuova missione del Willard/Martin Sheen in Apocalypse Now, viene totalmente ribaltato nel momento in cui la Bercot arriva sul terreno di battaglia, dove fa la conoscenza con la leader delle guerrigliere, Bahar, che è interpretata da una Golshifteh Farahani (About Elly, Paterson), totalmente non credibile nella parte, sempre truccata e ben vestita (indossa delle divise militari eleganti e stirate), e sempre con l’occhio umido, pronta a esplodere in patetici pianti che, ci pare, non si addicano alla austera e rigorosa vita del fronte.

Per di più Les filles du soleil abbandona ben presto il tramite della Bercot e si concentra sul personaggio della Farahani, andando a scavare nel suo passato in una serie di interminabili flashback, quando ancora aveva una famiglia e quando venne rapita dall’Isis, violentata, venduta come schiava, e infine liberata in modo decisamente grottesco. Tutto questo, mentre nel presente non succede nulla di significativo: le combattenti sono lì che bivaccano in attesa di passare al contrattacco. E, anche quando finalmente la riconquista dei territori del Kurdistan prende il via, la Husson insiste testardamente nel mostrarci le memorie della Farahani. Cosa succede allora? Che quel che vorrebbe essere il racconto del riscatto e dell’orgoglio femminile diventa invece una classica storia di passività, in cui la donna è tiranneggiata dagli uomini, per lunghi tratti sottomessa e completamente indifesa al cospetto del cosiddetto sesso forte. Non solo, insistendo così tanto sulla lacrima facile delle sue protagoniste e sul loro desiderio compulsivo di ritrovare i loro cari, la Husson ci dice sostanzialmente che – a suo avviso – il posto giusto per le combattenti sarebbe la casa, a fare le faccende e a crescere i figli. Ci suggerisce così un’immagine della donna tradizionale, che è esattamente l’opposto del femminismo. Ma, forse – e questo sia detto per inciso – il femminismo odierno nulla a ha che fare con quello storico, è molto più ambiguo politicamente. E, infatti, non è un caso che, da un lato, nel film viene solamente accennato al fatto che queste combattenti sono marxiste, e che, dall’altro, il vero scopo della lotta del personaggio della Farahani è solamente quello di ritrovare suo figlio. Dov’è allora il senso di collettività, la resistenza per la riconquista del proprio paese? Dov’è l’orgoglio curdo, se l’obiettivo della protagonista finisce per caratterizzarsi come una banalissima questione privata? E dov’è l’orgoglio femminile, se queste donne, persino nel presente di lotta e non solo nel passato di passività e di cattività, devono comunque sottostare alle decisioni militari degli uomini e devono farsi aiutare dai maschi quando sono in battaglia, perché da sole non sono in grado di cavarsela?

A questi serissimi problemi ideologici si aggiunge in Les filles du soleil anche un evidente imbarazzo registico e di scrittura: le scene di battaglia non sono mai credibili e i personaggi sembrano sparare a caso, senza che si veda mai il nemico; certi passaggi narrativi sono imbarazzanti per quanto appaiono maldestri (come, ad esempio, la fuga in flashback dagli schiavisti); una serie di personaggi spariscono nel nulla; la stessa Bercot si defila dalla narrazione e, alla fine, come le combattenti sparano a caso, anche lei sembra scattare foto a casaccio senza neppure guardare nel mirino. Paradossalmente, ecco dunque il nucleo del fallimento di Les filles du soleil, quel to shoot, che vuol dire sia sparare che scattare (e filmare), a proposito del quale la Husson non si è interrogata, né sulle sue implicazioni etiche né su quelle estetiche.

Info
La scheda di Les filles du soleil sul sito del Festival di Cannes.
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