L’odore della notte

L’odore della notte

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L’opera seconda di Claudio Caligari, L’odore della notte, è un viaggio mesto e disilluso nella Roma “noir” degli anni Settanta e Ottanta. Un eccellente Valerio Mastandrea guida un cast nel quale rifulgono Marco Giallini e Giorgio Tirabassi. Un gioiello da riscoprire.

Un cuore matto

Ambientato alla fine degli anni Settanta, il film narra la vicenda di un gruppo di rapinatori dell’estrema periferia di Roma specializzato nell’assalto ai “quartieri alti”. La banda aggancia le proprie vittime per strada, seguendole in macchina, e poi si intrufola nelle case dei borghesi seminando il terrore. A guidarli è Remo Guerra, un giovane arrabbiato che alterna i colpi alla professione di poliziotto. Ma nonostante i continui successi della banda, in Remo si affaccia una crisi di coscienza: è giusto che sia lui, rapinatore dei ricchi, a rivelare le contraddizioni della società? [sinossi]
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L’odore della notte romana entra nelle narici e non se ne va via più. Non importa se si è nati all’ombra del Colosseo o, seguendo le traversie della vita, ci si è trovati imbottigliati nelle arterie sempre sature della Capitale. L’odore della notte accarezza i capillari, pervade le narici e assuefà nel giro di poche ore, forse addirittura di pochi minuti. Ed è l’odore della notte quello che invade la mente di Remo Guerra/Valerio Mastandrea, poliziotto che nella Roma degli anni Settanta decide di intraprendere una sua personale, e forse velleitaria, lotta di classe contro il microcosmo benestante, quello delle ville ai Parioli, dei portieri, delle guardie giurate, delle casseforti nascoste da quadri di pittori moderni.
Remo Guerra, un nome che è tutto un programma: il nome di un eroe sconfitto solo per il fatto di aver “visto” meno avvoltoi. Ha meno di tutto, Remo Guerra, ma non lo appaga il puro gesto della conquista. Non è un semplice rapinatore di ville. Non gli basta. C’è un dolore più profondo, una malinconia che lo avvolge; è lo stesso mood, a ben vedere, in cui galleggia il cinema di Claudio Caligari, i due film portati a termine in trent’anni di carriera (oltre a questo, lo stordente esordio Amore tossico) e il terzo, inesorabilmente postumo, che probabilmente troverà ospitalità nei lavori della prossima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, il (non) luogo in cui Caligari ha sempre trovato le porte aperte, almeno in apparenza (gli applausi in sala nell’edizione del 1998 risuonano ancora chiari nelle orecchie, ma non portarono a nulla).

Non essere cattivo, si intitola il nuovo lungometraggio di Caligari, l’ultimo di una vita vissuta ai margini del cinema industriale, e non per sua scelta. Il sistema l’ha ricacciato indietro dopo averlo coperto di lusinghe, le stesse lusinghe di successo e gloria che carezzano i protagonisti de L’odore della notte, fantasmi di una Roma turlupinata, assassinata, colpita a tradimento. Sono gli anni di piombo, quelli in cui Caligari ambienta il film (traendo spunto da un romanzo di Dido Sacchettoni, Le notti di arancia meccanica), ma il vero nemico non è il brigatismo; è l’Italia del riflusso, in cui si agitano gli spettri del golpe Borghese e si vagheggia il compromesso storico. L’Italia che ha superato/sperperato l’illusorio boom e ricade nel vortice del conflitto sociale.
Non sono molti i film che hanno avuto il coraggio di tracciare un percorso possibile sulla lotta di classe in Italia, e sono ancora meno quelli che hanno scelto di farlo ragionando allo stesso tempo sulla macchina/cinema. L’odore della notte è un oggetto a se stante, fuori dal tempo (e incompreso al momento della sua presentazione ufficiale), che mescola il noir d’oltreoceano con lo scandaglio umano delle periferie che tracima ancora umori pasoliniani e zavattiniani e dà del tu ad altri grandi reietti del cinema italiano (il Nico D’Alessandria de L’imperatore di Roma, l’Alberto Grifi di Michele alla ricerca della felicità); Caligari fonde questi due elementi con una semplicità che ha del miracoloso, sostituendo l’enfasi epica che gronderà umori post-polar nei “romanzi criminali” del terzo millennio con uno straniamento mai anti-popolare. Agit-prop borgataro, L’odore della notte è onesto e preciso come lo sguardo di un regista che ha osato ciò che non poteva essere accettato: nell’Italia del miracolo italiano, nell’Italia post-ideologica in cui la falce e martello andava riposta in un cantuccio, cancellata dai manifesti elettorali, nell’Italia che ritrova il suo posto centrale in Europa, Caligari riporta lo sguardo a un passato recente senza edulcorarlo, né elevarlo a monolite storico inattaccabile.

Nella poetica di Caligari è l’uomo l’epicentro del conflitto, l’uomo e la sua natura sfaccettata, dolce e crudele, maligna e sofferente. Nella voce over che indaga se stessa prima ancora di raccontare ad altri, L’odore della notte riesce a raccontare un’umanità derelitta, slabbrata, già-morta/non-morta, e allo stesso tempo a comporre un’armonia di genere che nel marasma produttivo degli anni Novanta sembra un oggetto non identificato, alieno. Destinato per questo all’oblio (in tal senso, lo stesso fato che arriderà qualche anno più tardi a un altro film, forse meno compiuto ma altrettanto oltraggioso nei confronti della prassi produttiva, come Occhi di cristallo di Eros Puglielli), come già accaduto con Amore tossico.
Sceneggiato in stato di grazia, attraverso un racconto ellittico ma mai dispersivo che inanella una lunga serie di scene degne di un culto (e la celeberrima sequenza della rapina in casa di Little Tony è solo la punta dell’iceberg), L’odore della notte è il simbolo di un cinema a suo modo resistente e pericoloso, al punto da essere scientemente ghettizzato e abbandonato a se stesso. Riscoprirlo ora, quando è troppo tardi, è beffardo ma necessario. Indispensabile. In attesa delle lacrime di coccodrillo che accompagneranno i titoli di coda di Non essere cattivo.

Info
L’odore della notte, il trailer.
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